Aliquantum, il meraviglioso dilettante in cucina

Aliquantum, il meraviglioso dilettante in cucina

di Massimiliano Ferrari

Chi è il dilettante? Cosa definisce un amatore?

Secondo il dizionario Treccani il dilettante è “chi coltiva un’arte, una scienza, uno sport non per professione, né per lucro, ma per piacere proprio”. Si tratta in sostanza di qualcuno che pratica un’attività o si impegna in un mestiere senza il fine ultimo di ricavarci uno stipendio ma solo per la bellezza del gesto come direbbe il protagonista del film Holy Motors.

Cosa ci può essere di così sublime come praticare una qualsiasi attività senza avere il tormento del risultato, rimanendo distaccati dalla dittatura della performance? Ma ci sono occasioni in cui l’amatore tenta il grande salto, il passaggio dall’innocenza del cultore amatoriale all’età adulta del professionista.

Quello del dilettante che esce dall’anonimato e si affaccia sulla grande platea è diventato probabilmente il format televisivo del nuovo millennio, replicato in innumerevoli copie più o meno azzeccate.

La cucina tuttavia rimane ancora oggi una terra di mezzo dove la distanza, fra il dilettante che si cimenta nell’intimità della propria casa e il professionista che i piatti li crea e li trasforma in realtà nella cucina del proprio ristorante sottoponendosi a ritmi e pressioni ben diverse, rimane abissale.

Quando ho scoperto Aliquantum queste riflessioni su dilettantismo in cucina e cucina amatoriale non mi avevano mai toccato particolarmente o quantomeno cucina amatoriale e cucina autoriale mi sembravano mondi che correvano paralleli senza mai nemmeno sfiorarsi.

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Come tanti ero convinto che tecnica e pensiero dietro una certa cucina fossero appannaggio esclusivo di chef più o meno stellati mentre fra le mura domestiche tutt’al più ci si poteva divertire con la preparazione di una lasagna, andare oltre significava oltrepassare un limite tracciato da fornelli e padelle da pulire per ore, da piatti casalinghi che raramente assumevano l’aspetto di quelli immaginati mentre una certa insofferenza si riversava verso quei video tutorial dove la preparazione di una ricetta ha le sembianze di una cavalcata trionfale sgombra di ostacoli ed errori.

Ma cos’è Aliquantum? Facendola molto elementare potrei definire Aliquantum un blog di ricette, ma equivarrebbe a dire che Moby Dick è un romanzo che narra di una battuta di pesca ad una balena. E’ qualcosa in più senza dubbio.

Si tratta di un contenitore di ricette originali ed uniche, una narrazione diversa dalla gran parte del blogging culinario in Italia, una stanza delle meraviglie gastronomiche in cui mi sono imbattuto diversi mesi fa e che mi ritrovo a seguire in uno stato fra il meravigliato e l’incredulo, considerando anche il fatto che chi mette mano a queste ricette non è né un cuoco né un professionista della cucina ma un giovane professore universitario e ricercatore di letteratura latina.

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Incuriosito dalla voce unica di Aliquantum mi metto alla ricerca del suo misterioso ideatore. Una volta intercettato Luca Beltramini, questo il suo nome, ho deciso di girargli una serie di domande e riflessioni per approfondire l’idea che sta dietro a questo progetto, ragionare con lui di cucina e passione amatoriale, e farmi raccontare qualcosa della sua storia.

– In concreto cosa significa per te cucina amatoriale? A mio avviso troppo spesso l’amateur in cucina, ma non solo, passa per quello che tenta goffamente di replicare ricette famose, magari di qualche chef stellato, con risultati sempre al di sotto dell’originale. Anche perché le tue ricette sembrano tutto fuorché ricette di un dilettante allo sbaraglio. Si nota studio del prodotto, tecnica, conoscenze e pratica.
Come ogni altra passione la cucina può e deve implicare una componente di pratica e studio, che spesso è motivo di soddisfazione di per sé, al di là del godimento che si prova a mangiare un piatto o a servirlo. Credo che la cucina soffra ancora di un certo paradosso: si è ormai affermata come un sapere con una propria dignità specifica (alcuni la definirebbero “arte” o “artigianato”), ma in contesti non professionali c’è questa tendenza a considerarla un passatempo senza impegno, che ha solo uno scopo pratico (faccio da mangiare a me o ai miei amici).

È inevitabile che il cuoco amatoriale appassionato di cucina creativa all’inizio faccia quello che dici tu: si compra un ricettario di uno chef famoso e comincia a fare prove, inizialmente goffe e un po’ megalomani, sicuramente inferiori all’originale. Con il giusto metodo, però, ci si comincia a sganciare da questa fase iniziale e si inizia a camminare con le proprie gambe: si testano nuove tecniche, si applicano tecniche note a ingredienti diversi, si capisce quale stile di cucina sentiamo più nostro e quali ingredienti ci piace di più cucinare e mangiare.

Credo che la cosa più importante per entrare in una fase più “matura” sia ragionare sempre sui metodi, più che sulle ricette, capire il come certe tecniche funzionano e il perché funzionano in certi casi e in altri no. Se si ragiona in questo modo, ci si slega presto dalla ricetta e si comincia a ragionare in modo autonomo, ci si avvicina al mio ideale di cucina amatoriale.

Per certi aspetti è un percorso simile a imparare una nuova lingua: all’inizio si imparano le parole (gusti) e le regole grammaticali di base (abbinamenti), poi a mano a mano il nostro lessico si amplia.

– Che opinione hai della cosiddetta cucina stellata? E, in seconda battuta, hai qualche modello nella cucina internazionale a cui ti ispiri per le tue ricette?
Amo la cucina in ogni sua forma, ma la cucina creativa di livello mi affascina particolarmente. Ci sono piatti di chef “stellati” che mi hanno fatto emozionare in modo che difficilmente dimenticherò. La cucina che apprezzo di più è quella in cui, al di là della tecnica e della bontà dei piatti, traspaia un pensiero articolato, una visione “culturale” in senso lato.

Credo che l’alta cucina stia vivendo un periodo storico particolare e complesso, in Italia e nel mondo: sempre più spesso ai cuochi si richiede molto più di una grande cena; devono essere in grado di esprimere un pensiero, di prendere posizione su temi importanti come la sostenibilità e l’ecologia, di diventare in qualche misura punti di riferimento di un dibattito. Questa situazione ha aspetti davvero positivi, ha fatto emergere figure di chef che non esiterei a definire culturali (René Redzepi, Christian Puglisi e tutta la galassia del Mad Lab, ma anche Ben Shewry, Daniel Patterson, Virgilio Martinez e David Chang).

Non so se ho il coraggio di parlare di “ispirazione” per i miei piatti. Diciamo che ci sono cucine che mi interessano particolarmente e che credo entrino in qualche modo nelle cose che faccio: in Italia direi Antonia Klugmann, Francesco Brutto, Piergiorgio Parini e in generale i cuochi orientati sul mondo vegetale; poi Marco Ambrosino e altri che stanno sviluppando riflessioni importanti sui temi dell’interculturalità; Riccardo Camanini ha una visione della grande tradizione italiana che mi affascina molto. A livello internazionale, direi soprattutto la bistronomie francese, i nordici (ad esempio Puglisi e Redzepi), ma anche David Kinch e altri della scuola californiana.

– Hai mai pensato di trasformare quello che fai con Aliquantum in qualcosa di professionale?
Sì ci ho pensato, ma non credo di volerlo fare davvero. Almeno, non credo di voler cucinare nella cucina di un ristorante. Quando ho tempo mi diverto a fare qualche cena a domicilio, con piatti un po’ più semplici. Semmai mi piacerebbe tenere qualche lezione rivolta ad altri appassionati, che magari sono agli inizi e stanno cercando la loro strada nella cucina amatoriale.

Allo stesso tempo non ho mai frequentato corsi professionali né ho mai lavorato in un ristorante. Gli anni passati ho frequentato 3 o 4 lezioni singole tenute da chef che mi piacciono, ma sempre in contesti da non addetti ai lavori. Aliquantum è nato unicamente come “valvola di sfogo” di una passione enorme.

– Per chiudere il cerchio vorrei chiederti, forse uscendo un po’ dal tuo campo di interesse, come vedi il futuro della ristorazione e quindi della cucina dopo l’effetto Covid?
Da frequentatore di ristoranti, posso solo dire che dopo questa pandemia immagino che entrare in un locale diventerà un atto a cui daremo maggior peso rispetto a un tempo: le mascherine ci ricorderanno che esiste un rischio, per quanto minimo, di contagio, e per molti mangiare fuori significherà attingere a finanze già messe a dura prova. Per questo credo che le persone tenderanno a privilegiare locali a cui sono in qualche modo legate, dove sentono che “vale la pena” andare, per un motivo o per un altro.

A prescindere dalle previsioni, però, una cosa mi sta particolarmente a cuore: esiste un’emergenza di cui si parla molto poco, ed è quella che riguarda i lavoratori dipendenti, quelli che non rilasciano interviste e per i quali la cucina è un lavoro come un altro. Migliaia di persone che si sono ritrovate improvvisamente senza più alcun sostentamento perché assunte come stagisti o con contratti a chiamata o (finti) part-time. Per non parlare dei lavoratori del delivery e del sistema di sfruttamento che proprio in questi giorni è venuto finalmente alla luce grazie al tribunale di Milano.

Vorrei che questa fosse l’occasione per parlare finalmente del famoso “elefante nella stanza” del mondo della ristorazione: il precariato e le misere condizioni contrattuali a cui sono sottoposti tanti dipendenti del settore. Può sembrare una questione molto lontana dai piatti di Aliquantum, ma sono convinto che oggi la cucina, anche quella amatoriale, non possa sottrarsi da questi temi.

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Massimiliano Ferrari

Diviso fra pianura padana e alpi trentine, il vino per troppo tempo è quello che macchia le tovaglie alla domenica. Studi in editoria e comunicazione a Parma e poi Urbino. Bevo per anni senza arte né parte, poi la bottiglia giusta e la folgorazione. Da lì corsi AIS, ALMA e ora WSET. Imbrattacarte per quotidiani di provincia e piccoli editori prima, poi rappresentante e libero professionista. Domani chissà. Ah, ho fatto anche il sommelier in un ristorante stellato giusto il tempo per capire che preferivo berli i vini piuttosto che servirli.

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