Irrequieti e creativi: Alberto Gipponi, Enzo Jannacci e l’urgenza di vivere

Irrequieti e creativi: Alberto Gipponi, Enzo Jannacci e l’urgenza di vivere

di Graziano Nani

Se dico “irrequieto” penso subito a Jannacci, a quel suo buonumore esagitato e senza pace. Penso al protagonista di “La luna è una lampadina”, al suo camminare avanti e ‘ndrè fino a farsi male ai piedi sotto casa della Lina, di cui è innamorato pazzo, aspettando che si affacci. E penso ad Alberto Gipponi e al suo macinare chilometri inseguendo non la Lina ma Dina, un sogno cesellato negli anni fino a materializzarsi con il nome della nonna, profumato di pragmatismo e bei tempi andati tanto da ricordare quello della ragazza della canzone.

Ho avuto il piacere di un assaggio del mondo Dina grazie a #DiGusto, il format di eventi organizzato da Presso a Milano e condotto dalla scrittrice e critica gastronomica Roberta Schira. Una degustazione in pochi passaggi, studiata per condensare la cucina di Gipponi in una serata milanese e permettere di avvicinare per gradi la sua filosofia.

Scena uno. In primo piano, Roberta Schira presenta la serata. Sullo sfondo, un’ombra passa cento volte da sinistra a destra dietro la tenda che separa la sala apparecchiata. Immagino i ragazzi impegnati a sistemare gli ultimi dettagli ai tavoli, e invece a un certo punto sbuca la testa di Alberto. Controlla a che punto è l’introduzione, monitora la situazione come un falco e non si fa sfuggire mezza virgola. Il fulcro dell’irrequietezza sta tutto nelle dita. Le sfrega, le gira le rigira e non riesce a tenerle ferme, mani che fremono dalla smania di dare vita.

Mani segnate dal lavoro per realizzare un’idea di se stesso battagliando furibondo dietro ai fornelli, e non solo in senso figurato. I segni sono quelli delle ustioni di terzo grado procurate il primo giorno di apertura di Dina, pazzesco. Un pentolino d’olio ha preso fuoco con una ventata d’aria, dicono le versioni ufficiali, ma non posso fare a meno di immaginare l’elettricità di Alberto all’inaugurazione che si accumula nell’aria fino a esplodere in un incendio. Trenta giorni di prognosi, zero ore di riposo. Dopo il terrore puro al pensiero di aver perso la congiunzione tra le sue idee e il mondo, Alberto butta il cuore oltre l’ostacolo e in poche ore è di nuovo al lavoro.

Gipponi non ha bruciato solo le mani ma anche i tempi, considerando che nel 2015 faceva un altro lavoro e in soli tre anni è riuscito a lavorare con Bastianich all’Orsone e da Nadia a Castrezzato, e ad approdare nella cucina più importante del mondo accanto a Massimo Bottura.

Ecco il suo percorso condensato in un pugno di piatti. Certo non è la stessa cosa quando uno chef gioca fuori casa ma credetemi, il tocco di Alberto è chiaro e gli assaggi emanano tutta la febbrile urgenza che ha di esprimersi.

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Da dentro il sacchetto: casoncello crudo, ma cotto
Immagino l’Alberto – con l’articolo davanti, come si usa a casa sua e anche a casa mia – l’Alberto bambino ma già incapace di aspettare, smanioso di scoperta. Proprio non ce la fa ad attendere e quando vede la pasta sul tavolo se la mangia cruda. Il suo casoncello sta tutto in questa storia. Un morso, un salto all’indietro per tutti, non solo per Gipponi. Chi di noi non ha mai rubato un pezzetto di pasta cruda? La sensazione è esattamente quella, solo che il casoncello è cotto. Diavolo di uno chef, come hai fatto? Meglio non farsi troppe domande e continuare a masticare ricordi belli prendendoli dal sacchetto del pane. Non siamo ancora seduti, e già stiamo volando.

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Caso mai venisse a pranzo Davide Oldani
Nel caso si presentasse Oldani da Dina, cosa servire allo chef milanese? Cipolla, ovvio. È successo davvero, Davide si presenta e Alberto gliela serve, interpretata a modo suo. “Buona, mi ricorda la mia!” Dice Oldani. “Io te l’avevo detto!”, risponde Alberto. Sfoglia, crema di cipolla di Tropea, spuma di Grana Padano 43 mesi, gelato di carpione di cipolla di Tropea. Boom. Eccola la tensione creativa di Gipponi. Intensità su intensità, cipolla e grana si rincorrono e si danno forza a vicenda in una spirale che solo una mente inquieta avrebbe potuto concepire. C’è qualcosa di magico in questa commistione, quella che si sprigiona in bocca non è un’energia impetuosa ma una forza che dà pace. La tendenza dolce, filo conduttore tra i due ingredienti, è il leader carismatico che orchestra la trama intensa e delicata di questa maggioranza. All’opposizione le punte di sapidità del parmigiano e le note pungenti della cipolla si coalizzano e muovono gli equilibri dando vita a un vivacissimo contraddittorio. La sfoglia scrocchia forte, quasi violenta, forse sono il “fuori casa” e gli strumenti limitati che si fanno sentire un po’.

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Non mi era proprio mai piaciuta
Vietato di fermarsi anche a respirare, che qui la base continua a girare, chi non sa stare a tempo, prego andare.”

Ce lo ricorda Jannacci il ritmo di un certo incalzare tutto lombardo che la degustazione evoca molto bene. Ecco lo spaghetto al pomodoro mantecato con pesche e fragole, preparato con soffritto di cipolla, acqua di pomodoro e basilico. Non gli era proprio mai piaciuta la pasta al pomodoro all’Alberto, solo l’onore di cucinarla per tutta la brigata all’Osteria Francescana ha saputo cambiare la sua percezione del piatto. Lo spaghetto – un Senatore Cappelli firmato “Regina dei Sibillini” – colpisce per la sua consistenza granitica. L’impatto del sugo di frutta è decisamente pop. Arriva facile, evolve facile, chiude facile, ma non è banale. Merito forse delle venature di acidità sottili date dall’acqua di pomodoro e dalle fragole. Tre quarti dei commensali ne chiedono un’altra porzione, il dato parla da solo.

L’agnello nella bocca del lupo
Parliamo un po’ di quelle tentazioni che sarebbe meglio lasciar perdere. È lo stesso Alberto che ci invita a farlo, con il suo agnello marinato nella melissa e stufato. È avvolto da uno strato di pane carasau ammollato, e accompagnato da una maionese preparata con cumino, zenzero, coriandolo, curcuma, menta e genziana. Si mangia con le mani, ma non è solo questo il motivo per cui penso allo street food. L’impatto è godereccio, il piatto lavora sull’istinto e risulta difficile fermarsi a ragionare e non divorarlo in un attimo. Faccio giusto in tempo a ricordare certe sensazioni intense della cucina indiana, richiamate in modo diretto dagli ingredienti della maionese, e poi “puf!”, vado dritto nella bocca del lupo, e il piatto non c’è più. Che sia stato solo un sogno? Per lasciarcelo alle spalle, Alberto ci invita a chiudere con un brodo di funghi e melissa.

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Ma che cavolo!
Dessert di estrazione contemporanea che evolve un’idea di Gian Nicola Mula, sous-chef, e porta il baricentro tutto sulle durezze. Gli spigoli vegetali del cavolo sono giocati sapientemente e senza eccessi, sono loro i principali protagonisti di una certa morbidezza verdognola che fa sognare. Poi c’è la potenza del wasabi e l’amaricante della nocciola. Dal lato morbido della barricata la vaniglia armonizza, ma a dire il vero non si tratta di una vera e propria dicotomia. Al contrario, con il suo tocco tenero, non fa altro che completare una delicatezza già insita nel piatto. Un grande piatto.

Siamo in chiusura. Ora che abbiamo finito il percorso, vedo per la prima volta Alberto un po’ più quieto. Ma dura davvero un attimo. Pochi secondi, e di nuovo i piedi iniziano ad andare, le mani sfregano l’una contro l’altra e gli occhi scrutano intorno inseguendo la prossima idea che è lì dietro, sta per arrivare. Manca poco, va solo corteggiata ancora un po’.

“Terzo piano, quarta ringhiera, la luce è ancora accesa; io so che sei su, Lina, ma non guardi giù, non mi vedi, non vedi che son qui sul marciapiede che cammino avanti e indietro, e mi fanno male i piedi, Lina, oh Lina!”

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Graziano Nani

Frank Zappa con il Brunello, Hulk Hogan con il Sassella: per lui tutto c’entra con tutto, infatti qualcuno lo chiama il Brezsny del vino. Divaga anche su Gutin.it, il suo blog. Sommelier AIS, lavora a Milano ma la sua terra è la Valtellina: i vini del cuore per lui sono lì.

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