Vedendo Barolo Boys penso a mio padre Marco Ferrero e a come davvero è andata a finire quella storia

Vedendo Barolo Boys penso a mio padre Marco Ferrero e a come davvero è andata a finire quella storia

di Federico Ferrero

«Vuoi un po’ di vino? È vinello».
«No, dovresti dire: vuoi un po’ di schifo? È schifello».

Nonno Pietro Ferrero[1] faceva il muratore. Ero passato a salutarlo un pomeriggio, avrò avuto tredici anni; mi aveva offerto un bicchiere di dolcetto “alla moda antica”. Spillato da una botte dismessa da Fontanafredda, era quel che era: la definizione, geniale, di “schifello” la lasciò cadere nella stanza mio zio, che aveva colto casualmente un frammento del nostro dialogo. Il nonno aveva la vigna a Rodello – inghiottita dall’alluvione del ’94, lui non c’era già più – e le uve erano niente male; ma cosa poteva sapere di volatile, di malolattica? Più la botte era vecchia, più “dava gusto” a quell’intruglio che ogni giorno, ostinatamente, generazioni di contadini mettevano in tavola, da immemori vendemmie e così – si pensava – per sempre.

Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta, uno sberleffo della storia decise che un Barolo tra i migliori  in circolazione, il Cerequio delle cantine Marengo e Marenda di La Morra, dovesse uscire dalle mani di suo figlio[2]. Recalcitrante all’esposizione di sé, mio padre preferì sempre nascondersi dietro la sua creatura, un Barolo di fiera tradizione illuminata. A suo agio in uno stimato anonimato, se apprezzavano il vino si sentiva apprezzato pure lui. La cantina non era sua; i proprietari, un bancario e un paio di costruttori edili con lo sfizio del vino, sostanzialmente se ne fregavano, o non capivano fino in fondo ciò che avevano per le mani, o un po’ di entrambe le cose. Erano condizioni ideali per un enologo poco incline al rischio imprenditoriale e insensibile alle lusinghe dell’arricchimento. A vent’anni dal ritiro[3], c’è ancora chi cerca notizie sul conto di quel vignaiolo ossimorico, illustre eppure sconosciuto, magari dopo un assaggio travolgente di un Cerequio 1989. E non ne trovano: anche l’algoritmo di Google si è arreso alla sua avversione per tutto quanto possa costituire, in qualche maniera, un vanto.

Perciò capirete quale conflitto di sentimenti opposti possa essersi armato quando Paolo Casalis mi ha consegnato la copia del suo nuovo documentario, Barolo Boys. Perché il regista non è solo un amico: sono coautore di Langhe Doc, il suo penultimo lavoro, un film che racconta l’altra parte della luna, storie di eretici come Bartolo e Maria Teresa Mascarello, tradizionalisti a oltranza: per loro «fare la rivoluzione» significava impedire che il vanto del Piemonte, l’uva nebbiolo, finisse ostaggio di visionari modernisti, disposti a mutarlo geneticamente in un disgraziato inchino alle mode e ai gusti mutevoli. E io, per sangue e per idee, concordo. 

Mi risulta che l’accusa fondante contro Barolo Boys sia l’aver raccontato una storia, falsa e agiografica, della rivoluzione modernista nell’enologia delle Langhe di trent’anni fa. Se i documentari di Paolo Casalis hanno una firma (e ce l’hanno: durante la produzione di Langhe Doc è valsa più di una discussione con me, amante dei coltelli spianati alla Michael Moore) è la scelta di non offrire in pasto tesi premasticate, seducenti ma talora ingannevoli, proprio come un vino in barrique. Preferisce far sì che ciascuno si racconti.

Anche facendosi del male: a mio avviso, vittima dell’autoflagellazione è proprio Elio Altare, tuttora convinto – bontà sua – di aver riscattato le vicende grame di un vino grande ma mortificato, svenduto in pintoni alle osterie di fondovalle. Quando si inalbera («Prima [di noi, nda] c’era la fame, nel 1975 non trovavo da vendere le uve, lo dico senza tema di smentita, portatemi qui chi volete[4]») si è già risposto: è sufficiente il fuorionda che precede il suo pistolotto, saggiamente salvato nel montaggio, per sentirlo qualificarsi come un trombone, un disco rotto. Talmente abituato a darsi ragione da aver abdicato alla sana abitudine di mettersi in discussione.

Curiosamente, una delle sententiae di Altare («A quei tempi il Barolo lo si vendeva a millecinquecento lire la bottiglia») giunge, con tempismo senz’altro migliorabile, a commento dell’inquadratura di una cassa di Barolo del 1970: di tutte le immagini estrapolabili da un archivio iconografico, sorte vuole sia stata scelta una foto della cantina Marengo e Marenda. Un’azienda in cui il Barolo era tradizionale. E buono. Infatti veniva venduto senza affanni, i ricavi procuravano margini di guadagno, con quel margine si cambiavano le botti (e i macchinari se del caso) si pagava la gente in vigna, si stipendiava un cantiniere e, toh, pure il lusso di un enologo.

I Barolo Boys cascano, da sempre, in un equivoco di fondo: è vero, i nonni contadini delle colline, i loro genitori, tiravano la cinghia e producevano un Barolo mediamente cattivo. Ma la loro miseria non dipendeva certo dal fatto che non fosse stato rivelato loro il segreto di Santa Barrique, così come i vini erano difettosi perché enologicamente triviali. Il contesto da Malora fenogliana, che Altare rammenta con legittimo sollievo ora che si è emancipato e invecchia nell’agio, riguardava i contadini sprovvisti di conoscenze e di cultura enoica, non il mondo enologico tutto. Gente cresciuta ereditando fame, insegnava fame: indebitarsi e prendere a vinificare, con le indispensabili conoscenze scientifiche e le buone pratiche in cantina, non era all’ordine del giorno. Meglio vendere le uve, e tenersi quel po’ per bere a pranzo e cena. I nonni facevano il Barolo marsalato, aravano col bue e, se ti sorprendevano a diradare in vigna, invocavano l’esorcista. Ma la Borgogna non era la Terra Promessa.

Non era necessario, insomma, il pellegrinaggio salvifico al vigneto francese, presso il proprietario titolare di barca appoggiata al molo di Cannes, per rendersene conto. Sarebbero stati sufficienti i sei anni di scuola enologica, con la speranza di inciampare in ottimi professori. O, risparmiando sulla benzina, chiedere a uno come mio padre, anche se in effetti girava con una Panda 45 aziendale e non con la 911 Carrera di Réne Engel; quel catafalco di legno del bisnonno, marcio e pieno di tarli, avrebbe fatto la sua fine in legnaia per lasciar posto a una botte di Slavonia, nuova, capace di accogliere e cullare il nebbiolo senza stravolgerne l’anima. Per estinguere i retaggi di cultura ammuffita e anacronistica, i ragazzi del Barolo hanno effettivamente lottato controvento, ne va dato loro merito. Ma la conoscenza avrebbe soppiantato l’arretratezza, anche senza gite fuori porta dai cugini ricchi.

Del resto, un antico adagio degli enotecnici era un invito della vite a chi la lavorava, “Fammi povera e ti renderò ricco”. Tradotto: diradami, farò vino migliore. E non è stato coniato negli anni Ottanta: Roberto Voerzio, secondo cui «nessuno prima del 1985 diradava», deve essere stato vittima di un lieve smottamento di memoria storica. Se i vicini di vigna dei genitori di Altare, Boschis e boys assortiti non diradavano, succedeva perché incarnavano l’eredità di una subcultura retrograda che l’ignoranza elevava a tradizione. Se i figli hanno avuto il coraggio di ribaltare il tavolo guadagnando la dannazione eterna dei padri e centuplicando il fatturato, bravissimi. Ma non è il caso di ficcarsi in testa lo scolapasta: il progresso era già arrivato nelle grandi e medie cantine, questione di anni e sarebbe entrato pure nelle cascine private più resistenti alla eno-cultura.

Tuttavia, non è vero che Paolo Casalis si è fatto servo di questa versione epica della saga dei Barolo Boys: quando Chiara Boschis o Elio Altare sostengono, più o meno velatamente, la coincidenza tra la tradizione e lo sporcaccione, vengono smentiti a più riprese: dai Rinaldi di Barolo (padre e figlia), dal povero Bartolo Mascarello, dall’importatore David Berry Green, che ricorda efficacemente un assaggio di vini apolidi e blockbuster[5] presentati dall’importatore Marc De Grazia. Pure la simpatica e gagliarda figlia di Altare ammette che in casa vige il regime e che, ormai, si guarda più indietro che avanti; il rivoluzionario di ieri è il reazionario odierno, nato incendiario e destinato a morire pompiere.

Ce n’è abbastanza per scongiurare il rischio che gli spettatori meno smaliziati cadano nel tranello, credo. E comunque, a dare ai modernisti l’estrema unzione, è il loro ex cavallo di Troia Carlin Petrini, personaggio che mezzo mondo celebra alla stregua di un guru.

Ecco, Carlin Petrini. Sentirlo far la morale a Elio Altare per eccesso di ùbris, occhieggiando i filmati analogici delle feste di fine anni Ottanta in cui spadroneggiava, ebbro di barolo barricato e di entusiasmo per la contaminazione Langa-Borgogna, dà da pensare. Almeno riconosce di essersi sbagliato. Riferendosi alla Guida ai vini d’Italia del Gambero Rosso, il caposaldo della produzione editoriale di Arcigola-Slow Food, Petrini butta lì che «l’elemento di pregio di questa guida era l’aspetto descrittivo». Fuori dai denti, la Guida ai vini d’Italia (prima edizione 1988) è un raro esemplare di dogmatica, cieca e aprioristica partigianeria. Ciò che sapeva di futurismo era santo (laico: c’era di mezzo l’Arci). Il resto? Non pervenuto, ci spiace. Bravi a costruire un mito intorno al loro annuario per enoamatori, i curatori delle schede del Gambero dei primordi trattavano i difensori del tradizionalismo in cantina come la Fiat Duna: l’auto degli sfigati, nata vecchia, destinata all’oblio. Sfogliare oggi quelle guide sbiadite è istruttivo: dal vangelo di Elio Altare si legge di un bengodi innaffiato da vini «affinati il giusto periodo in barrique[6]». Le camminate catartiche nel suo vigneto erano rese in salmi: «sicuramente più istruttive di ogni degustazione e del miglior manuale di enologia», per non tacer della meraviglia di quelle «piccole botti di rovere francesi, per impreziosire e armonizzare vini che già da soli hanno struttura e profumi assolutamente eccezionali». Segno della croce e genuflessione.

Nonostante il divorzio tra Slow Food e Gambero, vecchio di anni, e il quarto di secolo trascorso, trovo invece clamoroso che il curatore delle guide Slow Food di oggi, Giancarlo Gariglio, lasci il segno in Barolo Boys con l’uscita, con convinzione pari alla smemoratezza, secondo cui «la critica è andata pazza per questi vini», mentre «in precedenza c’erano pochi Barolo interessanti». Qui, sì, avrei inserito dieci secondi di coscienza storica di Maria Teresa Mascarello: avrebbe ricordato al giovine i Barolo di casa sua e quelli di Pio Cesare, Franco Fiorina, Vietti, dei Marchesi di Barolo, i due Rinaldi, i baroli di Lorenzo Tablino per Fontanafredda; oppure quelli di Brezza, Barale, Cappellano, e magari, chissà, quel Cerequio di Marengo e Marenda. Forse Gariglio intendeva dire che i microproduttori di Barolo erano pochi, ma questa è un’altra storia.

A credere alla vulgata modernista, il piedino sul suolo americano l’avrebbero posato per primi loro, a metà anni Ottanta. È falso. Esiste(va) per esempio una società, la WineBow di Peter Matt e Leonardo LoCascio, che girava l’Italia in cerca di talenti. E così, senza majorettes, cotillon o cene con gli importatori sulla Quinta Strada – perché mio padre stava bene solo a La Morra – ecco che, per dirne una tra mille, il barolo Cerequio 1982, pur macchiato dal peccato originale di non sapere di vaniglia e caffè come un pinot della Borgogna, finì sulla tavola di Alberto Sordi in un ristorante a Manhattan, in diretta tivù a Domenica In. E le etichette citate poco più in alto vendevano oltreoceano quando i Barolo Boys erano indaffarati con gli esami alle scuole superiori.

In definitiva, posso capire gli strali dei criticoni, quelli che mal sopportano gli spezzoni più divulgativi e commerciali di un documentario: serve un sottotitolo che faccia presa, e “rivoluzione” attira; Joe Bastianich garantisce una introduzione a effetto, in fin dei conti non sposa né una tesi né l’altra; Oscar Farinetti lo si poteva risparmiare per altre tenzoni, è vero, se però ha fatto un prestito ai produttori del doc, freelance esposti alle tempeste della crisi, pace: non dicendo alcunché di rilevante, in fondo, manco ha fatto danni.

Un documentario non è un convegno di iniziati del vino, ed è sufficiente l’ora di girato per intuire che in Langa, ai tempi, qualcosa è effettivamente successo. Ma pure che qualcosa non torna, nella storia raccontata dai boys: chi si proclama vincitore è stato sconfitto, chi faceva gruppo vacanze a New York oggi non si riconoscerebbe per strada; chi osannava, ora si pente e chiede scusa. Che razza di rivoluzione compiuta è?

I conoscitori del vino sanno che la vaniglia, il caffè e quel carnevale di Rio di gusti esotici applicati, con rigore farmacistico, all’uva nebbiolo hanno fatto la fine che meritavano. Ormai, sono rimasti in pochissimi ad arraffare, al mercato delle spezie, l’aroma di legno abbrustolito che con la terra delle Langhe c’entra come i raduni di Casa Pound nel centro studi Beppe Fenoglio.

Il Barolo tradizionale è sempre esistito, quello del falegname va sparendo; Marc De Grazia, un tempo pronto a monopolizzare il commercio del Barolo, vive sull’Etna e tutto si può dire tranne che i minuti dedicatigli nel doc restituiscano impressioni di gioia e soddisfazione. Per me, trasudava mestizia e un senso di amarcord amaro e marsalato, quello dello sconfitto.

La storia del Barolo l’hanno fatta Colbert, Juliette di Barolo e Camillo Benso di Cavour, non l’ambizioso e coraggioso figlio di un contadino che in una parabola fulgida ma limitatissima, infine silurata dal tribunale del tempo, ha cambiato la sua, di storia, non certo quella del mondo vinicolo. Chiunque, dopo Barolo Boys, voglia saperne di più, se non ha avuto ben chiaro il punteggio di fine partita potrà documentarsi e sapere com’è andata a finire. Ma con il film, che consiglio, avrà chiare due idee: qualcosa è successo, lassù tra le vigne, nel passaggio tra il bianco&nero e i colori. E quel qualcosa non è ciò che credono di aver vissuto i protagonisti.

Sarebbe stato bello se, quest’ultimo pensiero, Casalis l’avesse messo in bocca a un enologo tradizionalista. Non dico a Marco Ferrero, che nel film non c’è. Anche se, dietro un pallet nella cantina Rinaldi a Barolo, per un secondo e mezzo, mi è parso di aver scorto un profilo addominale convesso, per me inconfondibile. Rivedendo la scena ho riconosciuto quel signore che, ancora una volta, si è nascosto all’obiettivo, facendosi scudo di casse di Barolo. Proprio come piace a lui.

[Federico Ferrero è su Twitter: @effe7effe]


[1] Omonimo e compaesano dell’inventore della Nutella. Nulla meno, nulla più.

[2] Non mio zio Massimo, quello dello “schifello”, ma Marco Ferrero, cioè mio padre. Forse per spirito di compensazione, o di autocastrazione, è da rilevarsi che raramente una cantina ebbe nomi peggiori: nata come l’agghiacciante Casa Vinicola Piemontese, un involontario omaggio ai commercianti di metanolo di Narzole, divenne poi l’inutilmente prolissa e sciapa Poderi e Cantine Marengo Marenda & C.

[3] Nel 1995 Angelo Gaja realizzò uno dei suoi affari, portando via agli ingenui titolari vigne, cantina e vini già imbottigliati a un prezzo poco meno che ridicolo. Mio padre, sentendosi depauperato dell’unico scopo in cantina, fare il Barolo (che di lì in avanti Gaja avrebbe vinificato nei suoi stabilimenti di Barbaresco) rassegnò le dimissioni, nonostante gli fosse stato garantito il posto di lavoro. Non avrebbe mai più fatto vino, fino alla pensione.

[4] D’accordo, vorrà dire che prenderò in braccio papà e glielo depositerò sull’uscio, o più comodamente gli ricorderò il suo numero di telefono.

[5] Noi, che siamo meno forbiti, diremmo vini-paraculo.

[6] Il Barolo del signor Ferrero, buono senza bisogno di vacanze esotiche in una botticella che lo facesse sapere di vaniglia e di tostato, era censurato. Che fosse cattivo, impossibile dirlo, quindi meglio non parlarne: si fa riferimento al naso più sopraffino (sic) di La Morra, al suo spirito arguto, alle 40.000 bottiglie di Barolo. Assaggi? No grazie, rischio di astinenza da legno. Negli anni a venire, quello che continuerà a mancare sarà il trasporto con cui si narra delle visite salvifiche alle vigne di Altare; il paragrafo sul naso sopraffino e sulle «indubbie capacità» (scritto quasi con fastidio) del Ferrero non sparirà, ma arriveranno anche gli assaggi. E pure i tre bicchieri, ma senza santificazione.

42 Commenti

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fabio fusina

circa 9 anni fa - Link

Ciao Federico, non ci conosciamo, ma conosco bene tuo padre con cui ho condiviso negli ultimi anni varie giornate durante la vendemmia in una cantina di Barolo. Condivido il tuo articolo e mi fa piacere che alcune voci escano allo scoperto. Se il proprietario della cantina di cui sopra avesse una qualche dimestichezza con il computer potrebbe ben rispondere, ma purtroppo con la tecnologia e' rimasto "arretrato". Un saluto a te e a tuo padre che ho visto in gran forma pochi giorni fa. Fabio

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carolain cats

circa 9 anni fa - Link

io con quel Marco Ferrero li ho mangiato i tajarin a casa di una grande amica, parlando di barolo, bevendo barolo e facendomi aiutare con un raboso rompiballe che mi faceva dannare. poi con noi c'era uno strano tizio che sapeva di toscano e mi osservava e annuiva con la testa.è stata una bellissima giornata, molto istruttiva per me, sopratutto come persona oltre che come donna da vino.

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Dario N

circa 9 anni fa - Link

Il Mito del Progresso di una volta si è potuto trasformare nel mito della Terra e del Contadino solo quando di contadini non ce ne sono stati più, o quando son rimasti una minoranza (il simpatico e ostinato vecchietto che, nel film, dirada perché "mi comandano"). Questo è quello che è successo alla sinistra italiana, e così ci si può spiegare la parabola del manifesto Carlo Petrini. Per fortuna, dice lei. Io non ne sarei così convinto. Io amo i baroli territoriali, quelli mitici che ha descritto lei in questo articolo. E quando sono andato in Langa, la prima azienda cui ho voluto far visita (anzi, rendere omaggio) è stata quella di Bartolo Mascarello. Ma sono altrettanto convinto che quel movimento dei "boys", in quel periodo storico, abbia ottenuto il grande risultato di accelerare un processo che, come lei dice, sarebbe potuto avvenire lo stesso. Gliene va reso il merito, per quanto sia fuor di dubbio che quei giovani rampanti abbiano fatto l'errore di sovra-investire e di sovrastimare l'innovazione, il progresso. O meglio, una innovazione, che è valsa simbolicamente per tutte: la barrique (benché non credo sia stata solo quella ad aver determinato il miglioramento dei vini dei vari Elii Altari rispetto a quelli dei loro padri). Gli assolutismi finiscono sempre per essenzializzare qualcosa che, per la sua varietà e per la sua variabilità, non può essere riassunto in un unica verità: il vino, l'uomo.

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Paolo A.

circa 9 anni fa - Link

Pezzo assolutamente meraviglioso, uno dei più belli mai letti su Intravino.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

Una delle cose più belle e più vere che abbia mai letto sul vino. Complimenti all'autore. E, similes cum similibus, mi ricorda tanto casa mia. Ma proprio tanto. Leggo il post e ripenso al più che noto enologo e manager (suo conterraneo) che scrisse che prima del suo arrivo a Montalcino tenevamo i polli nelle botti vuote, che poi pulivamo sommariamente per la vendemmia. E quante simili amenità da tanti che non sanno nulla della terra che calpestano, e nulla hanno mai voluto sapere! I grandi vini non nascono sotto il cavolo o per concessione divina, sono frutto di secoli di prove, sudore e intelletto di tanti geni dimenticati. Del territorio. Poi arrivano quattro fenomeni e sei pennivendoli, e tutto quello che è accaduto prima di loro svanisce come per magia. Per fortuna poi leggo cose belle come questa, e mi si riapre il cuore. Grazie, grazie davvero.

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Giovanni Corazzol

circa 9 anni fa - Link

grazie

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IL consumatore

circa 9 anni fa - Link

Caro Federico, grazie per questo scritto meraviglioso la cui qualità è merce rarissima tra le righe del web e non solo. Uno scritto riguardo ad un argomento che mi pare sentito, molto piú sentito ....della tua prefazione al libro della Errani (scherzo...). Questo doc dei Barolo Boys mi ha un poco infastidito nel titolo, nel messaggio che lascia a chi non conosce il mondo e la storia del Barolo. Ritengo che poco spazio sia riservato al contradditorio con la voce dei Rinaldi, al Bartolo Mascarello nella scena molto riduttiva del confronto Altare - Bartolo. Il Casalis tuo amico, mi auguro legga ben bene il tuo pezzo e rilegga la sua opera alla luce della tua veritiera analisi. Per fortuna, un Marengo Marenda '90 in cantina mi è rimasto...

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Raimondo Navarro

circa 9 anni fa - Link

complimenti a Federico Ferrero per questa analisi di Barolo boys. Concordo, e come non potrei diversamente, con quasi tutto scrive, sono più scettico, nonostante il modo in cui lo scriva sia suggestivo, circa l'affermazione "I conoscitori del vino sanno che la vaniglia, il caffè e quel carnevale di Rio di gusti esotici applicati, con rigore farmacistico, all’uva nebbiolo hanno fatto la fine che meritavano. Ormai, sono rimasti in pochissimi ad arraffare, al mercato delle spezie, l’aroma di legno abbrustolito". A me, che un poco il Barolo frequento e conosco non sembra proprio sia così. Certi eccessi da "circo Togni" sono spariti, ma vini olezzanti di legno e di tostatura, soprattutto targati La Morra, restano. Vorrei poi far rilevare a Cinelli Colombini che quanto scrive, ovvero " I grandi vini non nascono sotto il cavolo o per concessione divina, sono frutto di secoli di prove, sudore e intelletto di tanti geni dimenticati. Del territorio. Poi arrivano quattro fenomeni e sei pennivendoli, e tutto quello che è accaduto prima di loro svanisce come per magia", non é corrispondente al vero. A Barolo a tentare di stravolgere il Barolo non erano "quattro fenomeni" ma un bel clan, stavo per scrivere "una cupola" di produttori ben organizzati e sorretti non da "sei pennivendoli", ma da larghissima parte della stampa e internazionale. Nonché da quella guida da cui, ora, l'ex artefice e deus ex machina Carlo Petrini prende le distanze...

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

So benissimo che nel Barolo (o nel Brunello, in Chianti e in qualunque altra zona di pregio) i se-dicenti araldi del mondo nuovo erano tanti, quel "quattro" era un misto tra un figura retorica e un'auspicio. Anche perché l'Italia è un paese meraviglioso in cui lo sport nazionale non è il calcio, ma il salto sul carro del vincitore del momento. Che domani cambia. Per cui raccontare la storia per come è stata è un impegno bellissimo che condivido e provo a fare, ma stare a fare troppo il conto di chi era dalla parte "sbagliata" non vale la pena. Magari ora sono puristi e, per come se la ricordano, pure ante marcia.

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Orfeo

circa 9 anni fa - Link

Ho acquistato barolo per la prima volta negli anni 80 ed era il Cerequio di Marengo e Marenda. Articolo bellissimo e commovente.

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francesco

circa 9 anni fa - Link

uno dei più grandi articoli scritti sul barolo senza il ditino alzato e senza ve lo avevo detto io da incorniciare

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Jovica Todorovic (Teo)

circa 9 anni fa - Link

ci sono i pezzi polemici, ci sono i pezzi ironici, ci sono, sempre meno i pezzi da leggere. Oggi si è letto di gusto. Bella analisi, garbata. Io ho amato e bevuto molto i vini dei Barolo Boys. Sopratutto Altare e Clerico. E' qualche tempo che non mi ci ritrovo più, cerco altro. Per fortuna lo trovo ancora. I Barolo Boys sono stati e sono ancora per certi versi una bella e importante parentessi. Spngerli verso l'assoluto sarebbe un'operazione richiosa e piena di lacune e trappoloni. Il Nebbiolo è sopratutto tanto altro che come tutte le cose bella deve essere capata e cercata con curiosità.

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gianpaolo

circa 9 anni fa - Link

bello, molto bello questo articolo. Incidentalmente sono a New York, dove ieri hanno presentato il documentario, e parlavo a pranzo con un manager di ristorante proprio di questa vicenda. La sensazione e' che persino qui in Amerika, nel regno del male che ha in qualche modo prodotto quel fenomeno, le cose si vedano adesso in modo diverso.

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Francesco

circa 9 anni fa - Link

Bellissimo articolo, portentoso per passione e voglia di chiarire. Ha un peso specifico alto e definitivo. Ho ancora un paio di bottiglie del meraviglioso Cerequio 89. L'ultima bevuta un anno fa in compangia di un amico e due miti di langa: Beppe Rinaldi e Flavio Roddolo. Accanto al Cerequio c'era un'altra bottiglia mitica che non esiste più: il Pian Polvere Soprano d Riccardo Fenocchio 89. Serata splendida per compagnia e vini. I due 89 si sono parlati come due vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo

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Cesare Boschis

circa 9 anni fa - Link

All'epoca fui uno dei loro più strenui oppositori (anche se c'ere mia sorella fra loro). E ora dovrei gioire per una ipotetica rivincita ?? Non ha alcun senso. Signori, ammettiamolo onestamente, questi "ragazzi" hanno (forse si, esagerando anche) data una sferzata energica, stimolando al miglioramento anche i già bravi tradizionalisti e creando un interesse senza precedenti verso la Langa del Barolo. Non mi si raccontino balle !! Oggi più nessun Barolo è come prima e moltissimi "nuovi" non sarebbero forse neppure nati senza quella svolta!! Non sono stati certo loro i creatori della storia del Barolo, ma non lo furono Giulio Mascarello come Cesare Borgogno e forse neppure Giulia Colbert, Oudart o Staglieno: tutti questi sono stati, secondo me, in pari misura, importanti tasselli nella "costruzione" di questa storia, nell'attesa di qualcun altro che ne aggiunga il tassello successivo ...

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Iacopo Rossi

circa 9 anni fa - Link

Chapeau! Un articolo da far leggere e rileggere alla nostra generazione di giovani vignaioli

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Rizzo Fabiari

circa 9 anni fa - Link

Testo molto piacevole da leggere, sanamente e calibratamente incazzato. En passant, il Cerequio Marengo Marenda 1989 è il Barolo forse più prodigioso che abbia mai bevuto. Anzi, togliamoci il forse.

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la fillossera gourmet

circa 9 anni fa - Link

Articolo da stampare e rileggere di tanto in tanto. Al link che segue, il nostro racconto del Cerequio 1990 di Marengo e Marenda che ha regalato grandi emozioni in una serata di degustazioni anni '90: http://lafillossera.blogspot.it/2014/10/pezzi-da-90-parte-ii.html

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Cesare Boschis

circa 9 anni fa - Link

PS: Fra l'altro con Marco Ferrero c'è amicizia di lunghissima data e ho conosciuto suo figlio ancora bimbo !! Ha scritto bene Federico, e su qualcosa sono anche d'accordo. Forse il documentario (non lo chiamerei film), tutto sommato malinconico, trasmette a qualcuno sensazioni sbagliate. Elio Altare ci mette anche del suo in tale direzione. Io, feroce tradizionalista tuttora convinto (anche se credo di essere stato fra i primissimi in assoluto a adottare la fermentazione termoregolata sul Barolo a metà anni settanta, ma nelle stesso periodo ho anche fatta legna da ardere di una cinquantina di barriques di rovere francese che mio zio Cesare Borgogno aveva acquistate e utilizzate, udite udite, già a metà degli anni sessanta), ritengo invece che il ciclone dei Barolo Boys non sia stato solo un boom di breve durata. Ha lasciato il segno eccome e, tralasciando il fatto che quei ragazzi hanno data vita a cantine splendide e all'avanguardia oggi (alla faccia della presunta sconfitta) ha influenzato in modo profondo tutto il mondo del vino in Langa. Dicevo che nessun Barolo è più come prima, benissimo (comunque il Barolo degli anni settanta non era quello degli anni cinquanta, ne quello di inizio secolo, tantomeno quello dell'Ottocento, allora dove vorremmo collocare l'inizio della tradizione ?), d'altro canto la tradizione, se becera cieca e immobile, è destinata a sparire. Cresce e si tramanda solo se in continua evoluzione.

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francesco papa

circa 9 anni fa - Link

complimenti sig. Cesare, non ne ha bisogno e, magari non le importa nulla, ma glieli faccio lo stesso. Il suo intervento è l'unico non partigiano, non restauratore e non "salto sul carro del vincitore del momento". Qualche tempo fa' avevo scritto, forse un po' brutalmente e con una certa irriverenza ma secondo me in maniera efficace che "senza i barolo boys Giuseppe Rinaldi se ne starebbe ancora sull'amaca a scrivere poesie strampalate, con la differenza che non se lo filerebbe nessuno". Ecco lei, con le su parole sagge e misurate ha esplicitato il concetto che volevo trasmettere. Soprattutto in tema di tradizione che, lo ricordo a tutti i soloni e solonetti che animano qs blog, è custodia del fuoco non adorazione della cenere.

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Il consumatore

circa 9 anni fa - Link

Oltre all 'irriverenza, probabilmente lei si ostina a scrivere senza conoscere le persone e la famiglia Rinaldi, ovvero scrive usando un nickname....scomodo considerazioni personali che nulla c'entrano con l argomento.

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francesco papa

circa 9 anni fa - Link

ecco stiamo sull'argomento e non tiriamo in ballo questioni personali. La mia è una metafora (se lei non l'ha capito sono problemi suoi), irriverente, ma efficace per spiegare la mia tesi che poi vedo non troppo lontana da quanto scritto da altri, molto più autorevoli e saggi, conoscitori di Langa.

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antonio

circa 9 anni fa - Link

Mi associo ai complimenti per Cesare Boschis, il suo intervento è di rara saggezza e buonsenso. D'altronde mi sembra che questo "documentario" stia alimentando polemiche più che discussioni su uno stile piuttosto che un altro. Io non ho difficoltà, libero da qualsiasi pregiudizio, ad ammettere di amare tanto i Barolo di Sandrone quanto quelli di Giacomo Conterno, e come me penso tanti. La cosa che più mi dispiace, è che qualche individuo sta cavalcando questa querelle in modo indegno per cercare un minimo di visibilità che non avrebbe altrimenti. Non mi riferisco ad Intravino nè ai suoi lettori, ma non è difficile capire di chi stia parlando.

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Federico Ferrero

circa 9 anni fa - Link

non ne avevo intenzione, ma il prode Morichetti mi ha segnalato che sarebbe stato inopportuno sparire senza un cenno di vita. voglio ringraziare tutti voi per l'attenzione che avete prestato nel leggermi. non ho alcunché da aggiungere al contenuto, se non che il cameriere di Alberto Sordi, quel giorno a Manhattan, era Woody Allen. me l'ero scordato. sono superbo, ma non tanto da pretendere l'ultima parola sulla storia contemporanea del barolo; è che la coincidenza del padre enologo "resistente" e dell'amico regista mi hanno offerto un'opportunità che ho voluto cogliere, con l'ospitalità di Intravino, senza covare interessi non dichiarati ma per puro e sano piacere: circostanza che, quando scrivo per mestiere, vivo sempre più raramente. penso sia un problema universale: in fondo, ciò che si rende lavoro è destinato a perdere, prima o poi, almeno parte del suo fascino attrattivo. con ciò - vi rassicuro - non ho, né mai ho avuto, alcuna intenzione di occupare spazi nel vostro splendido mondo. il vino, per me, è sempre stato il sollazzo di un racconto, l'esperienza e la convivialità a tavola; talora, come in questo caso, anche un argomento di discussione appassionata. ecco perché, anche agli inizi, mai fui tentato dalla strada dell'eno-giornalismo: sono abbastanza sicuro che avrebbe rovinato tutti i miei ricordi e il sapore della libertà nel frequentarlo con immenso piacere, ma senza costrizioni. ancora saluti a tutti, e grazie davvero. FF PS Cesare Boschis: ho memoria, ma temo non sufficiente per ricordare le frequentazioni con mio padre nella mia infanzia. Marco abita sempre la stessa casa dal 1972: si faccia sentire, ci (ri)conosceremo volentieri.

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Alessandro Morichetti

circa 9 anni fa - Link

Scusate se mi inserisco ma qui o esce fuori un Cerequio 89 o fate tutti una finaccia perché altrimenti prendo a nolo un furgoncino AVIS e il prelievo lo faccio a modo mio. Cesare ovviamente si preoccupa di completare la linea degli '89 con quelli che preferisce dei produttori che preferisce, su cui non credo opporremo resistenza :D. Segnalo comunque ai lettori che le iscrizioni alla serata sono già state chiuse :) PS: e che nessuno dica niente a Marco Ferrero sennò s'incazza!

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Paolo De Cristofaro

circa 9 anni fa - Link

è già stato detto che è buono? :-)

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Francesco

circa 9 anni fa - Link

Ottima idea ;-) io sarei ben lieto di fare la mia parte con qualche buta ;-)

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Cesare Boschis

circa 9 anni fa - Link

Federico, una bella tirata d'orecchi mi sa che la meriteresti da parte mia :-). Mica per l'articolo: sostanzialmente non ne condivido i concetti, però ti va reso ogni merito per il garbo e la piacevolezza del tuo scritto. Per la memoria !! L'ultima volta che ci siamo incontrati risale a meno di un anno or sono, a Barolo, presso il locale di mia figlia Francesca, in compagnia di tua cugina Gio'. E poi ... quanti anni avevi nel 1979 ? Conosco bene la casa di Marco e quella via di Alba ove, al civico 3, abitava una biondina che andavo a trovare spesso ... e che più tardi è divenuta mia moglie. Qualche dubbio ancora ? :-). Con Marco (ma nella tua famiglia c'era anche un altro grandissimo enologo, tuo zio Livio) quanti incontri nelle Commissioni Camerali. Di lui ho sempre ammirato, oltre alla preparazione e alla pacatezza di giudizio, la smisurata fantasia; te lo potrà confermare lui stesso che arrivai a suggerirgli di scrivere un "Dizionario dei termini impropri" in enologia ! Ti potrà anche spiegare quale fosse il mio atteggiamento nei confronti di quei vini con evidenti sentori di legno, tostati, vanigliati che cominciavano a affacciarsi sulla scena e che ritenevo un serio attacco all'integrità e all'identità del Nebbiolo. Ero un integralista, li avrei respinti tutti !! Invece ne discutevamo cercando di capire fino a che punto si sarebbe potuti arrivare. Intanto si era scatenata la guerra: gli innovatori sostenevano che i tradizionalisti non fossero capaci a fare il vino, per contro i tradizionalisti affermavano che i primi facevano vini fasulli. E a dire il vero, non erano molti a perorare la "causa" tradizionalista che aveva contro anche la stampa specializzata nazionale e internazionale; per questo mi stupisce un po' vedere quanti paladini si schierano ora: dove erano a quel tempo ??? Poi, fra persone intelligenti, con il tempo è prevalso il buon senso, i toni si sono smorzati, le posizioni avvicinate e tutta la zona ne ha tratti enormi incontestabili benefici. E ora, tutto questo fa parte della Storia. Per questo motivo sono assolutamente convinto che sia sciocco e controproducente ridare ossigeno al fuoco di contrasti assurdi e superati. A chi giova ??? Può solo far danni !!! A tutti, perdonate lo sfogo e un grazie sentito a chi cosi gentilmente ha espresso apprezzamenti per le mie parole.

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Federico Ferrero

circa 9 anni fa - Link

caro Cesare, il mio vuoto temporal-mnemonico (sì, non ricordo la visita dello scorso anno) ma, soprattutto, il non averti identificato come il Rivale, colui che soffiò a un bambino di 10 anni l'amore della vita (Vicina di casa Bionda e Bella come una Charlie's Angel) impongono un ultimo rimedio: la mia mail ce l'ha Morichetti, proseguiamo lì. solo una nota a difesa del "perché": fosse stata una sciocchezza, un anacronismo, un modo come un altro per fare caciara, nessuno si sarebbe prestato a farsi filmare da Paolo Casalis nel 2014 su una vicenda del 1985. se, poi, la querelle è più o meno "controproducente", dal mio punto di vista non rileva: non è il mio mestiere, rendere produttivo o meno un settore. al contrario mi pare che i Boys non si sottraggano: hanno raccontato volentieri la loro parabola per un documentario. che, oggi, come giustamente dici si può giudicare anche storicamente, essendo quei fatti usciti dalla cronaca dei tempi, ma le loro fondamenta tutt'altro che assurde, tutt'altro che superate. un abbraccio (alla Charlie's Angel, non a te) FF

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maz

circa 9 anni fa - Link

Grazie. Grazie di questo articolo meraviglioso che dice con cognizione di causa quello che molti di noi pensavano. Aggiungo un piccolo e insignificante aneddoto di una manciata abbondante di anni fa: degustazione SF con vignaiuolo che fa Barolo, elogi a manetta per il suo essere "tradizionalista" e lui che a denti stretti mi commenta nell'orecchio "ora tutti a farmi i complimenti, ma per dieci anni mi trattavano come un coglione perchè non usavo le barriques"... ultima provocazione: sicuri che la Rivoluzione non ci sia stata SOPRATTUTTO per il contesto degli anni rampanti e per il vino che diventava gradualmente da puro prodotto agricolo un prodotto di moda di massa? Ovvero, non è che i Barolo Boys sono stati la causa ma semplicemente hanno cavalcato l'onda e la condivisione maggiore di tecnologie e saperi (che poi almeno in parte è quanto dice il mio nuovo grande idolo supremo FF) ?

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

Bellissimo questo post e bellissimi anche gli scambi di risposte, come ho già scritto tutto questo mi ricorda tantissimo casa mia. Si vede che davvero tutto il mondo del vino è paese. E proprio perché tutto questo mi ricorda tanto i miei colli mi permetto di fare una riflessione a sintesi. Tutto il dibattito tra modernisti e tradizionalisti è vecchio, vieto e probabilmente aveva poco senso anche allora. Ancor meno avrebbe senso riaprirlo ora. Ciò che credo si possa dire è che i grandi vini sono come gli alberi secolari, nella loro lunga vita sviluppano molti rami forti e importanti di cui solo alcuni sopravvivono e danno frutti. Ma tutti, al loro tempo, sono stati importanti e tutti hanno contribuito a determinare il futuro. Non direi proprio che il Barolo di oggi sia il diretto discendente di quello dei Barolo Boys di qualche decennio fa, e neppure il loro vino odierno è più in quello stile. Il futuro è nato altrove, tra produttori che una stampa miope all'epoca non apprezzava. Ma i Barolo Boys sono stati importanti, e hanno dato prestigio e fama all'intera denominazione. Non sono stati loro a portare il Barolo nel mondo, c'era già, ma hanno dato un contributo importante. E in questa storia quanto ci vedo il riflesso (identico) di ciò che è accaduto al Brunello! I grandi vini sono grandi cori con grandi cantanti, che con il tempo cambiano, ma i giornalisti questo paiono non riuscire mai a capirlo; per loro ci vuole sempre il tenore che rivoluziona il mondo, e se non c'è se lo devono inventare. Poi qualcuno si monta la testa, ma questa è un'altra storia.

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Il consumatore

circa 9 anni fa - Link

Apprezzo molto questa sua riflessione.

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roberto voerzio

circa 9 anni fa - Link

Carissimo Federico anche se non ci conosciamo sono stato un grande amico di tuo padre negli anni in cui e' stato enologo nella cantina di La Morra,e pur non vedendoci da tanto tempo lo ritengo ancora tale. Ho letto con grande interesse il tuo lunghissimo commento sulla vicenda dei Barolo Boys o che dir si voglia modernisti ai quali appartego solo generazionalmente, nei prossimi giorni ti inviero' il mio punto di vista.

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Alessandro Morichetti

circa 9 anni fa - Link

Roberto, sarebbe molto carino un punto di vista interno sulla storia che è stata e che è, e visto che sei arrivato fin qui perché non farne una lettura per tutti? Quindi puoi mandare il tuo punto di vista a Federico - così poi me lo gira sotto tortura, oppure mandarlo direttamente a noi, così risparmiamo bit :D. Dico davvero, sarebbe il degno prosieguo di un post ficcante e con commenti civili come non se ne ricordavano dal tempo dei dinosauri.

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Federico Ferrero

circa 9 anni fa - Link

ciao Roberto, molto volentieri. so bene della vostra amicizia, mio papà ha sempre speso parole di elogio per te e il tuo lavoro. molte grazie, FF

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paolo casalis

circa 9 anni fa - Link

Vi racconto una storia. Cinque o sei anni fa cambiai lavoro, e fui assunto in un ufficio pubblico. I miei vicini di lavoro, ma stavo per scrivere di banco tanto i rapporti diventarono da subito di amicizia e di cordialità, erano del Toro. Sì, il Torino, la squadra di calcio. A me non me n'è mai fregato un cazzo di calcio, a me piace il ciclismo, a me piacevano Contador e Evans (altra storia, altri problemi, lasciamo perdere) ma alla domanda "Di che squadra sei?" io istintivamente risposi "Della Juve". Qualche parente juventino, amici al 90% juventini, e la tv trasmetteva le partite della Juve, mica quelle del Toro in Serie B. La mia seconda mossa fu ancora peggiore: osai dire che “però” il Toro mi era simpatico - brutto termine, lo ammetto - e che aveva una grande, spettacolare storia. Superga, gli eroi, la sfortuna, le radici popolari, una parabola che neppure a Hollywood, insomma di motivi ce ne sono a bizzeffe e in confronto la storia della Juve è piatta, è una merda, è solo la storia del compagno secchione di Mike Tyson o del ciclista fortunato amico di Marco Pantani. Insomma, proposi un atto di non belligeranza e di rispetto reciproco, che tanto a me, lo ripeto e glielo ripetei, di calcio non me ne fregava un cazzo. Non l'avessi mai fatto. La mia mano tesa era la mano di un killer, era un atto di superbia e di compassione non voluta, era il buffetto del prevaricatore sulla guancia del prevaricato, era lo sfottò inaccettabile di chi si sente talmente superiore da permettersi di apprezzare e concedere dei bocconi all'avversario. Passai uno o due giorni a difendere la mia posizione di non belligeranza, poi rinunciai. Senza neppure sapere la formazione della Juve, diventai lo Juventino, il nemico. Volevano un nemico? Eccomi pronto, a disposizione, e lo sarei stato per due bellissimi anni, anni in cui ci divertimmo un sacco a sfotterci l'uno con l'altro, e battibeccare su tutto, a litigare per finta, perchè quello volevano i miei amici tifosi, quello era il loro unico modo di relazionarsi con il mondo esterno. Il senso di questa storiella? Anticipando quella che potrebbe essere la vostra prima mossa, vi chiedo di non mettere la parola Tradizionalisti (o Citrico) al posto di Torino, perchè verrebbero fuori solo dei gran casini. Il senso di questa storiella è solo che il vino (e io l'ho capito solo nelle ultime settimane) è come il calcio: a un tifoso puoi dire quel che cazzo vuoi, ma tanto lui resterà della sua posizione, e se non hai esattamente la stessa posizione (stessa maglietta, stessi pantaloncini, stessi calzini, stesse scarpe) allora tu, che magari sei più vicino alla sua posizione di quanto lui possa immaginare, o addirittura HAI la sua stessa posizione, sarai sempre suo nemico. Odio incondizionato o amore incondizionato, non c'è terza via, “Con noi o contro di noi” diceva qualche anno fa George W. Bush (colpo basso, lo ammetto). Ciò detto giuro - a me stesso - di non entrare più nell'argomento e di non commentare o rispondere più ai blog sul vino perchè tanto (vd. storiella di sopra) non se ne esce. Per quieto vivere non credo che starò al giochino praticato con successo con i miei colleghi, più semplicemente (e tristemente) mi asterrò. ps La mia amarezza, che trapela dalle ultime righe, non è data dalle critiche al film, e peraltro non ne ho neppure lette tante, forse perchè presi dal sentore di barrique nessuno si è soffermato sulle inquadrature o sul montaggio, nè mi sarei scomposto troppo perchè in fondo (come ho appena raccontato) fino a pochi anni fa facevo tutt'altro lavoro La mia amarezza deriva dalle critiche "al tema stesso" del film, alla "scelta" di fare questo film. E' un concetto leggermente diverso, che vorrei spiegare: molti di voi (non mi riferisco a te, Federico, e neppure ai soli lettori di Intravino, ma visto il grande successo di questo post ne approfitto per allargare il commento a tutti i winelovers) non ammettono la possibilità che si possa fare un documentario su persone/storie/temi che non rispecchiano le proprie posizioni (l'atteggiamento da tifoso di cui parlavo prima). E' l'idea del film in sé e per sé ( basta anche solo il titolo, per citare uno dei commenti che ho letto qui) che fa discutere. E io non voglio auto-assolvermi, ma.. Anzi, riformulo la frase: io mi auto-assolvo, poi fate voi come meglio credete, ma prima trovatemi 5 titoli di documentari (o anche di film) che siano così bastardi con i loro protagonisti, e mi renderete felice perchè smanioso di vederli. A un certo punto del film sono TUTTI contro i Barolo Boys, tutti: la critica ama i vini dei tradizionalisti, il loro mentore Petrini volta loro le spalle e la stessa cosa fanno gli americani, la figlia di Elio si ritorce contro il padre, Marco de Grazia è in esilio in Sicilia (se volete leggerla così) come un novello Napoleone, Roberto Voerzio si dissocia, il gruppo di amici è esploso e la sola Chiara Boschis tiene viva la bandiera dell'entusiasmo, mentre Marco de Grazia afferma che nessuna rivoluzione è destinata ad avere successo e Elio Altare cerca nuova gloria e motivazioni alle Cinque Terre. Allora (per citare Petrini) mi chiedo: ma di che cosa stiamo parlando? Dovevo (dovevamo, io e Tiziano Gaia) farli morire per rendervi felici? Spiacente, impossibile, sono tutti ben arzilli. Dovevo (dovevamo, io e Tiziano Gaia) dare il triplo dello spazio a Bartolo, a Citrico o all'amica Maria Teresa? Spiacente, il film era sui Barolo Boys. "Basta ades', l'ai già parlà trop!"

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Fiorenzo Sartore

circa 9 anni fa - Link

Gran bel commento. Peccato che sia un commiato, ma è definitivo soprattutto in senso buono.

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Enrico Nieri

circa 9 anni fa - Link

Buonasera, sono un semplice appassionato di enogastronomia pisano di 48 anni. Se mi permetto esprimere un commento è per testimoniare un'atto di amore alla vostra terra ed alle persone che l'hanno resa quella che oggi è. La mia origine toscana mi permette di avere una certa esperienza in campalinismi di ogni genere, ci dividiamo storicamente su tutto. Basti pensare alle medievali divisioni tra guelfi e ghibellini, che a Firenze, una volta sconfitti i ghibellini, diventò divisione in guelfi bianchi e neri. Mentre a Pisa, città storicamente ghibellina filoimperiale, siamo riusciti a dividerci in ghibellini integrali e....filopapali. I due più illustri esponenti di quest'ultima cordata furono l'Arcivescovo Dagoberto, primo Patriarca di Gerusalemme dopo la prima crociata, e il meno fortunato Conte Ugolino Della Gherardesca Da Settimo. Imprigionato in questa ancestrale cultura della divisione ad ogni costo dalla quale cerco di divincolarmi quotidianamente, io pisano sono tifoso della Fiorentina, mi chiedo se, nel Vostro caso e da spettatore, non sia più opportuno fermarsi un attimo e riflettere sugli straordinari risultati ottenuti grazie al contributo di tutti piuttosto che continuare a dividersi su posizioni a mio parere preconcette. Che cosa sono oggi le Langhe ? Sono un luogo dove si producono vini di estrema qualità, in maniera estremamente diffusa, ben remunerati, dove è possibile bere dei grandissimi vini senza svenarsi, dove esiste ancora una dignità per i lavoratori che in vario modo partecipano alla produzione. Questo, secondo il mio modesto parere, è merito di tutti, "modernisti" e"tradizionalisti", perchè siete stati dei bravi "modernisti" e dei bravi "tradizionalisti". Gli uni hanno stimolato gli altri in un processo di miglioramento costante, un marxismo dialettico applicato alla produzione enologica. Se si accendono le luci del palcoscenico perchè le guide americane si innamorano di un certo tipo di Barolo bene, molto bene, perchè si vende di più e meglio. E questo al movimento dei Barolo Boys credo vada riconosciuto. Se i Tradizionalisti sono stati così intelligenti da capire che la Tradizione non è l'adorazione della cenere ma il mantenere viva la fiamma bene, molto bene. Conta il risultato. Che è staordinario. Oggi i vini prodotti nelle Langhe sono, per la maggior parte, privi di quegli eccessi modernisti di qualche anno fà ma anche privi di quelle acidità/tannicità che in troppi casi li contraddistinguevano. E questo non può non essere che il risultato dell'intelligenza delle persone che operano in quella terra benedetta da Dio. Con gratitudine e rispetto per tutti quelli che cercano di produrre vini di qualità. Enrico Nieri

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Marco

circa 9 anni fa - Link

Buonasera a tutti, ho letto e riletto sia l'articolo che le risposte per capire bene di cosa si stava parlando e sono giunto alla mia modesta conclusione : ma di cosa si sta parlando? Chi può dire quale sia il vero Barolo? Chi si può prendere la paternità del vero Barolo? Nessun Barolo può essere il riferimento di una denominazione, nessun produttore può essere colui che fa il vero Barolo, il vino può essere solo il risultato di un viticoltore che nella CORRETTEZZA ETICA cerca di esprimere al meglio ciò che la sua terra gli può dare ; e questo vale per tutte le denominazioni che sia Barberesco,Vino Nobile di Montepulciano, Brunello, Grillo o Frappato.... E' ora di buttare giù questo muro fra tradizionalisti e modernisti che porta solo a far vendere più vino ai francesi che in questo modo si sentono ancora di più maestri e custodi dei segreti della viticoltura. Ho girato la Langa in lungo e largo,ho parlato con tantissimi produttori famosi e meno famosi e l'unica cosa che è venuta fuori da quasi tutti è la povertà che hanno CONDIVISO (almeno una cosa la hanno condivisa) fino a qualche decennio fa. E allora mi sento indistintamente di dire a TUTTI i produttori : BRAVI !!!! Barolo Boys o Barolo Old, che ognuno continui a seguire la sua strada che c'è un palato per tutti voi, ma smettetela di rivendicare cose che non appartengono a nessuno e non rendono merito alla straordinaria storia che ognuno di Voi si è costruito. Scusate lo sfogo ma anche se sono Fiorentino ho il nebbiolo nel sangue e parlare di Barolo mi ha fatto venire voglia di stappare una Magnum di Barolo di ..........annata 1989....adoro le annate con il 9....e me la bevo tutta alla faccia della tradizione fino al terzo bicchiere poi alla faccia della modernità dal quarto in poi! Prosit Marco

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Enrico

circa 9 anni fa - Link

Bellissima recensione

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Renzo

circa 4 anni fa - Link

Sono un po' in ritardo ... Concordo su molte cose e trovo l' articolo bellissimo; e dei Cerquio di Marco Ferrero ho bellissimi ricordi , da annate tipo '71 , '78 e di tutte quelle dall' 82 al '90 compresa. ma per favore non mettete nel mucchio dei Barolo Boys Roberto Voerzio, anche se ha fatto parte di Langa In . Roberto ha sempre preso come esempio il Monfortino e ricordo di averne bevute molte bottiglie con lui , Pinuccia e mia moglie ; e non è sua idea e non ha mai affermato che i Barolo vechio stile erano puzzoni. Questo lo so per certo; e la discriminante tra modernisti e tradizionalisti, come diceva anche Bartolo, non è solo la dimensione dei legni ma la lunghezza delle macerazioni. E per i Barolo Roberto, a parte una prova nell' 88 , ha sempr macerato i suoi Barolo a lungo. Provocazione : Voerzio dirada anche nei filari che non sono a vista ... Solo per senso di verità , in modo da non accomunare Roberto agli altri .

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