Vacanze alcoliche a Bali tra birra vino ma anche caffè

Vacanze alcoliche a Bali tra birra vino ma anche caffè

di Andrea Gori

Bali non è solo una destinazione esotica: chiunque la visiti sa che la natura lussureggiante, le enormi spiagge bianche, i locali pittoreschi, le spa, le passeggiate alla Julia Roberts per i sentieri di Ubud, i profumatissimi frangipane e i loro sgargianti colori, le risaie terrazzate sono solo gli elementi fotografabili dell’isola. Quello che ti rimane davvero dentro è la spiritualità intima e animista che pervade ogni momento della vita balinese.

Una spiritualità spesso sfacciata anche se ovvia, nell’unica isola induista in una nazione fortemente musulmana, un continuo e quasi ossessivo rimando al divino, al trascendente, agli spiriti protettori e i demoni da placare con offerte di ogni genere (puntualmente pestate con selvaggia noncuranza sui marciapiedi). Una religiosità che ti coinvolge senza via d’uscita, al punto che ti pare normale trascorrere tre ore del tuo tempo in abluzioni alle fonti sacre di Tirta Empul. Così come pare normale spegnere il motore dell’auto per far passare l’ennesima processione che paralizza il traffico in città, o sull’unica stradina di montagna che ti sta portando a rimirare il vulcano Batur. E se pensi alle tue reazioni di fronte a processioni, via crucis e feste parrocchiali del nostro belpaese, un pochino ti vergogni pure della tua mancanza di anelito all’infinito oltre queste impure spoglie mortali.

E a proposito di impurità, come si comporta a Bali il nostro fegato?

La religione di stato indonesiano ci mette i bastoni tra le ruote già all’aeroporto, quindi anche se facendo scalo a Dubai avevi fatto spesa di DRC a Le Clos, tieni presente che in aeroporto a Denpasar ti sarà sequestrato tutto quanto eccede il litro a persona. E ci metti un attimo a renderti conto che lo Champagne torna subito ad essere roba per ricchi visto che un Brut Premiére di Roederer viene via tipo a 2 milioni di rupie (qualcosa come 125 euro), quasi il quadruplo che in Italia. Si cambia un poco il passo con i superalcolici perché tra Vodka e Gin i prezzi sono meno esosi. Ma ovviamente ci si deve accontentare delle marche da Lidl che compravate 20 anni fa per i festini all’università.

Molti a Bali in pieno revival medioevaleggiante finiscono con il bere birra, molto più spesso che acqua, visto che la comunissima Bintang costa circa uguale e soprattutto si trova ovunque sempre fresca e in ogni formato immaginabile, alla pari del merchandising ispirato a lei. Che poi a pensarci bene il fatto che una birra di proprietà Heineken (con tanto di identica stella rossa in etichetta) sia così popolare a Bali è un’assurdità storica e anche un tradimento bell’e buono. Nel 1840 pur di non arrendersi ai colonizzatori olandesi 5 mila balinesi si lanciarono in un famoso attacco suicida che scandisce l’epica popolare dell’isola. Oggi però pur di dissetare 5 milioni e passa di turisti che ogni anno vengono qua la birra olandese è osannata come un’altra divinità isolana.

Ci sono altre birre prodotte in zona, come la Bali Hai da Java, la Storm da Denpasar e la Anker da Jakarta, ma obbiettivamente avendole assaggiate non vediamo perché non preferirgli la Bintang: leggera ma non troppo, fresca, delicata, quasi senza sapore se non di malto, e qualche fiore tra gli aromi al naso. In qualsiasi altra parte del mondo sparirebbe come mediocre ma qui ti si impone quasi come una madeleine: ovunque ti trovi nel mondo ti fa tornare a Padang Padang in un attimo, ricordandoti di quel pomeriggio che poi alla fine le onde giuste per il tuo longboard non sono arrivate.

Venendo al vino… ecco, tralasciando i vini balinesi ottenuti mescolando vino locale con mosti australiani, il vino più diffuso e rappresentativo è certamente quello prodotto da Hatten Wines, fondata a Bali nel 1994. Ha 34 ettari di vigneto nella zona nord di Singaraja, distretto di Buleleng (dove nessun turista si addentra mai). Per primo nacque il rosé e fu subito un successo, con il suo stile provenzale molto ruffiano, quindi a breve distanza seguirono bianco, rosso e bollicine. “Aga Red” è lontano dai nostri standard con le sue note di prugna, caffè, e qualche nota speziata tra peperone e cumino, bocca non pulitissima, tannino flebile e corpo molliccio ed esile, ed è solo un poco meglio Aga White 2014 con sambuco e mandarini, agrumi e lychees, bocca piacevole e fresca, finale speziato, mentre il Rosé rimane il più simbolico, dolcissimo di fragole e guava, furbetto e sbarazzino come pochi.

La qualità, dicevamo, non è elevatissima ma decisamente incoraggiante, se si pensa che stiamo parlando di uve francesi e locali dai non altisonanti nomi di Propolinggo Biru (una varietà asiatica), la francese Alphonse-Lavallée (da tavola) e la Belgia, scelte perché capaci di resistere a parassiti e microorganismi locali ma sopratutto di vivere e produrre uva in maniera continuativa in un ciclo di 120 giorni. Avete capito bene: niente dormienza, gelate, e mese fisso per vendemmiare. La temperatura quasi costante tra 33 e 20 gradi tutto l’anno con solo alcune differenze stagionali di umidità e pioggia permettono alle uve, e a tutti i vegetali, di crescere costantemente senza soluzione di continuità e di produrre uva a ciclo continuo.

Il rosso decisamente è da dimenticare, ma rosé e bianco sono perfetti per non spendere una follia in etichette italiane (Zonin, Antinori, Bisol tra le aziende più presenti insieme a Ruffino) e soprattutto per abbinare ai meravigliosi, speziatissimi e spesso costosi piatti di pesce che vi servono in posti come Jimbaran o alle isole Gili, dove per qualche secondo potete (quasi) fingere di essere un naufrago solitario.

Se col vino non è facile godere, in compenso respirando a pieni polmoni l’aria hai sempre a che fare con aromi dolci, speziature fini e grandi mercati coloratissimi, per annusare dal vivo varietà di frutta (guava) pepe, sali, cannella, chiodi di garofano e curry che insieme allo struggente aroma dei frangipane in fiore si imprimono nella memoria olfattiva senza sforzo, consentendoti di sfoggiarli al primo vino degustato al ritorno in patria.

Meno male che la bevanda nazionale si chiama caffè, altrimenti non sapremmo come affrontare sul serio un’isola dove in piena estate il sole tramonta inderogabilmente alle 18. Preparato con la french press o con le macchine a filtro (ma pure alcuni espresso non sono malaccio), la scelta è tra non meno di 10 varietà locali da tutta l’Indonesia, dal più fresco ed erbaceo da Java al più corposo intenso e ricco di rimandi di tabacco da Nord Sumatra. In mezzo sta il cosiddetto re dei caffè gourmet, spesso ridotto ad una crudele giostra per turisti, il famigerato Kopi Luwac, altrimenti noto come “cacca caffè” per gli italiani di passaggio.

La storia la sapete, ma vale la pena ricordare che l’idea di tostare e utilizzare i chicchi ritrovati negli escrementi di questi viverridi (chiamati “civette delle palme”, simili a dei furetti) nasce dai tempi dell’occupazione olandese, che sfruttava le piantagioni di caffè proibendone il consumo ai balinesi che si accorsero presto che, appunto, negli escrementi delle civette si trovavano spesso le bacche digerite di caffè ancora utilizzabili per la tostatura. Il Kopi Luwaks è un caffè comunque particolare e interessante, ancora più che per il suo odore esotico, molto terroso e con rimandi a peperoni verdi con tocchi di caramello, muschio e pepe bianco, per la sua cremosità e il suo corpo sciropposo e rotondo, con un finale di cioccolato inconfondibile. Restano le riserve e la tristezza nel veder condannati questi animaletti a consumare soltanto caffè invece di una dieta più variegata, quasi alla stregua del trattamento subito dalle oche per il nostro amato foie gras. Se lo consumate, sappiate che contribuirete a far perdurare questo tipo di allevamento. Ma potete benissimo evitare di andare a vedere gli allevamenti di Luwaks e gustarvelo in uno dei tanti coffee shop a giro, accoglienti e pieni di onde wi-fi: sono cloni molto ben fatti di Starbucks con incluso persino un ottimo cheesecake agli Oreo.

La verità però è che da queste parti anche per gustarsi il più spettacolare piatto locale, il maialino da latte al forno o Babi Guling (ostentato quasi come la religione sempre per marcare la differenza con l’Indonesia musulmana) non senti davvero il bisogno di alcol o freschezza, va benissimo anche una bevanda a base di ginger e altri ingredienti pseudo naturali, servita in bottiglia heineken riciclata. Solo così ti puoi lasciare avvolgere da tutte le spezie, i contrasti e gli aromi penetranti dell’isola, solo così, senza alcol, puoi gustarti l’armonia di questo street food che ha molto in comune con il porceddu sardo e la porchetta umbra, con in più il fascino di queste fritture ariose e delicate di cotenna di cui ti farciresti la valigia.

Eppoi diciamoci la verità, per godere di tramonti così, chi ha bisogno davvero di bere?

Andrea Gori

Quarta generazione della famiglia Gori – ristoratori in Firenze dal 1901 – è il primo a occuparsi seriamente di vino. Biologo, ricercatore e genetista, inizia gli studi da sommelier nel 2004. Gli serviranno 4 anni per diventare vice campione europeo. In pubblico nega, ma crede nella supremazia della Toscana sulle altre regioni del vino, pur avendo un debole per Borgogna e Champagne. Per tutti è “il sommelier informatico”.

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