Una verticale di Osso San Grato con descrittori che non avreste mai neanche immaginato

di Emanuele Giannone

Nebbiolo è un figlio di Oceano e Teti. Già nel suo dominio d’elezione la varietà di morfemi e flessioni lo smaschera per un Proteo. Si novella spesso, spesso banalizzando, di una sua proverbiale forza: una vibrazione autentica, intensa e profonda, che in effetti c’è e tuttavia è molteplice, si risolve in molte e differenti versioni, ora austere e composte, ora nervose, ora tratteggiate in levità e finezza. La forza del nebbiolo non si lascia ricondurre a unità in chiave riduzionista. Ve ne sono persino le varianti disincantate e ironiche, quelle che fanno scontrare l’aulico con il prosaico: si pensi ai vini di Carema e del Canavese – e dove mai disincanto e ironia, dove le versioni desublimate se non là dove vive Totò Merùmeni con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente?

Senza voler ledere maestà enoiche e letterarie, qui si celia dell’ipotetico e ancestrale Spirito del Nebbiolo. Sebbene provenisse dal Levante, egli fu probabilmente celtico d’adozione, quindi pugnace e bevace. Dopo molte battaglie attraversò l’intero Pedemontium e le terre dei Reti in cerca di requie: dopo tanto, celtico urlare e grugnire e pugnare aveva bisogno di una pausa. Così, sorvolando le arci e i tenui declivi tra Tanaro e Belbo, si avvide che il luogo era bello. Ancora planando, già aveva deciso: mi piace, vi scendo. Mi placo, mi fermo. Discese e si assise: rimise i fendenti ai fenoli, le acredini agli acidi e qui si placò, calando due assi tra Cuneo ed Asti. Ma non perdurò, ché presto lo punse indomabile l’estro di risollevarsi: e spinse un tentacolo a Nord, verso l’Alpe; e un altro, un po’ più sbilenco, tra Domodossola e la Valmalenco.

Haec fabula docet che già all’epoca dei commerci tra Etruschi e Cimbri, quando l’uva era detta spinea o spionia (da qui probabilmente il nome Spanna), il Nebbiolo era diffuso ed ermetico: endemico nelle Langhe, rapsodico altrove; ubiquo di là, più rado a ridosso delle Alpi, dove la tradizione gli annetteva saldi eventuali d’uve diverse, poi recepiti nei regolamenti. Rado, in verità, non lo era a fine ’800, quando nell’area delle denominazioni nord-piemontesi si contavano 50.000 ettari vitati contro i circa 2000 attuali. Dopodiché il magnete industriale trasse a sé le giovani leve. Sudamerica, gelo e fillossera fecero il resto.

Tra le multiformi varianti del Nebbiolo, la nordica non si rifà pedissequamente a quelle di sotto, né oppone loro alterità ostentate e fittizie. Se ne differenzia per questioni di sostanza che le graduatorie talvolta sottovalutano: ad esempio, la virtù di arrivare a un massimo di concentrazione espressiva dal minimo di materia e densità possibile. Questa relativa sottigliezza o rarefazione è una delle doti ricorrenti nei vini migliori dei migliori settentrioni. Tra questi annoveriamo senz’altro il vino raccontato nel seguito, attraverso le dodici annate di una memorabile verticale: il Gattinara Osso San Grato di Antoniolo, dal cru che deve il nome al patrono dei vignaioli di lassù. Strato organico esiguo ed esposizione a Sud: le viti fanno di necessità virtù, penetrando i suoli acidi, di origine vulcanica, composti principalmente da graniti e porfidi, ricchi di scheletro e sali minerali. Suoli, quelli di lassù, in chiaro rapporto eziologico con i tratti che caratterizzano la contestura e il profilo del vino.

1982: granato antico e rutili aranciati. Iniziale riduzione. Impronta seria e netta d’erbe amare, radici e china su un sostrato floreale cangiante: delicato, quasi diafano in principio (fiordaliso, ciclamino, rosa), si fa via via più intenso e sognante (viola, peonia, colonia) ed evolve lento in terra, rabarbaro, nappa, ferro, menta secca, cenere e fungo. In bocca è un’idea algida e ferrosa, dalla quale si dipanano filigrane floreali e note nette di melagrana, loto maturo, mirtillo rosso, sale. Tannini serici e serrati. Teso e fine, diritto fino a un’ora buona dopo il servizio, quando si presenta con bacon, geranio, tabacco Sobranie ma soprattutto le avvisaglie del declivio (cola, carne bollita, salsa HP). Ultimo sorso e ultima sorpresa, il colpo di classe e di coda: la nuda semplicità di un’arancia rossa, della sua invitante freschezza, giusto per ricordare che l’addio alla vita di certi vini “freddi” è nostalgia di sole e di calore.

1989: granato vivace. Ruggine e sangue svariati di cenni balsamici (ginepro, resina), quindi una pausa involuta. Il sospetto di caducità (composte, tapenade, ketchup) è effimero, netta la virata su tratti di freschezza: pietra bagnata, aghi di pino, fiori (viola, iris), acqua marina, gomma pane e pepe bianco. Più il tempo passa, più il ventaglio aromatico si dischiude, arricchendosi di menta, salvia, tè e cardamomo. Bocca più ricca e rônde rispetto a chi lo ha preceduto, bilanciata e corale: frutta rossa fresca e carnosa (sorba, prugna), tabacco e liquirizia dolci, rabarbaro e cenere, molti riflessi balsamici (edera, canfora) e speziati (noce moscata), ornati della sensazione di finezza calorica che richiama il sakè (!). La progressione gustativa dona un ritorno floreale prima dell’acuto finale e dello smorzando in ferro e frutto rosso acerbo.

1990: impronta classica in una declinazione più calda e matura, appena velata dal tappo non immacolato: geranio, arancia sanguinella, noce, fungo, composta di ciliegia e paglia a far da contorno a fumo, asfalto, ghisa, confettura di mora e fiori passi. Bocca elegante, di buona sapidità e sviluppo continuo, di connotazione prevalentemente calda. Progressione piacevole con note di fungo, pellame, nocciola e fumo: al tratto più arrendevole, alla freschezza già svolta fa da contraltare un tannino ancora mordente e non tiglioso. Buona persistenza, chiusura su note speziate dolci (garofano, cannella), triple sec, fogliame e terra.

1996: della dozzina è forse quello più aperto e seducente nell’approccio, e la beva esempare-elementare lo attesta. Concentrazione di aromi nella preliminare ritrosia. Ma dura poco e lascia il campo a un dilagare di frutta matura (anguria, susina, arancia, mora), buccia di pesca, ruggine, fiori appassiti e grafite. Al gusto è connubio di corpo e tensione: attacco succoso, sapido e fresco a dettare lo sviluppo, che procede in un crescendo di maturità (agrumi dolci, frutta secca), calore e grassezza (lardo, olio di noce) fino alle note tostate (caffè, sigaro). Tannini ancora duri, non grezzi, che amplificano le tracce di ferro, polvere e erbe amare in persistenza.

1997: naso che allude a una materia consistente e vissuta. Consueto sfondo ferroso. In primo piano frutto maturo (amarena, mora), fungo, cuoio, rabarbaro, mallo di noce, segheria. Bocca vigorosa, più ampia e distesa che nei precedenti, meno pressante ma perfettamente risolta, pronta. Corredo usuale di note ematiche, erbe officinali e chinotto, poi frutta secca e gelatina di ribes. Tannini molto eleganti: la loro levigatezza, così come la lentezza e la distensione dello sviluppo, non bastano a stemperare la nota profonda e metallica, di una freddezza che parrebbe aliena al contesto e invece gli è essenziale. Infatti sostiene il vino e lo slancia. Gli approcci ripetuti in oltre un’ora regalano all’olfatto e al gusto istantanee ed emozioni mutevoli, ma sempre di grande definizione e intensità.

1998: serrato e austero, non si rivela se non per i soffi di ruta, galena, rosmarino, menta secca. Sussurra. La prima impressione al sorso coincide solo in parte con i riscontri olfattivi: la nota sapida e rugginosa ricorda il ’97 ma è più netta e vibrante, più stagliate le tracce di sasso e fumo, ben fuse a quelle di gelatina di more, radici, pellame, foglie. La sosta nel calice ne amplia il ventaglio olfattivo, che si arricchisce di olio di noce, resina di pino, muschio e melagrana. Chiusura a sorpresa, nel segno del sale e di un’eco di miele ed edera.

1999: terra, cardo e ferro, poi glicine, durone e cioccolato. Il naso è fusione di freschezza e maturità, la bocca di grande composizione: elegante, di sferzante acidità e struttura essenziale. Si succedono susina, ferro, mirtillo rosso, erica e la nota pungente e balsamica della canfora. Progressione da fondista, come agìta da un corpo più esile, quasi astenico, eppure dotato di grande energia e incisivo nella progressione. Teso a lungo, teso in largo e circonfuso di tannini forti ed eleganti. Chiusura in arancio.

2001: spiazzante per vivacità e mutevolezza. Lo si potrebbe descrivere per rapporti dialettici: profondo e aereo, estroverso e serrato, fine e potente nei diversi aspetti. In apertura spiccano le note floreali, balsamiche, di finocchio selvatico, ribes e cuoio; un attimo dopo sa di muschio bianco, terra e caffè. Gli scostamenti ispirano irruenza giovanile, non eccentricità, e nel complesso il quadro resta coeso ed elegante, ancorché composito. L’assaggio conferma l’impressione: energia e pressione, sensazioni caloriche, tattili e volumiche di grande intensità in attacco, mentre la progressione è un corale di voci più soffuse e sottili, tutte intonate. Tannini severi, organici a ritmo e lunghezza dello sviluppo. Finale lungo con ritorni floreali, terrosi e tostati. Grande versione: equilibrio tra austerità formale e intensità poetica.

2004: un’altra declinazione di giovinezza. Rispetto al precedente impressiona per la superiore articolazione del periodare, per i cenni discreti ma ripetuti a una maturità ventura che già si intravede grande: ritroso, profondo, compresso, si esprime in un vero arabesco di tracce aromatiche, tratteggiate ad arte e mai ostentate, fuse in un quadro di grande coesione: ferro, rosa rossa, bacca di ginepro, menta secca, cren, fresia, lampone, acqua di mare, terra, pellame. Sensazioni di densità e intensità, tensione ed energia sottese a un sorprendente contegno: le stesse che segnano l’impatto gustativo. Struttura essenziale e vigorosa, attacco di sale e ferro, veramente elettrico; quindi frutti scuri freschi, ghisa, foglie, salvia, china, papavero, gelatina di ribes, sullo sfondo la nota eterea di un buon single malt. Dinamica gustativa impressionante per il condursi misurato nonostante la tensione voltaica, per la ricchezza della trama minerale. Stoffa, discrezione e disciplina da nobile per un finale che si assottiglia lentamente su essenze di fiori, rabarbaro e menta.

2005: ancora una diversa connotazione: umida e boschiva. L’annata è più piccola, la struttura più esile. La versione epigrafica di OSG, che al confronto con i precedenti si presenta in tono minore, minuta e laconica. Sommesso e sfumato nei profumi di fiori passi, champignons, lavanda e torba, con qualche cenno più fresco e tonico (sciroppo d’acero, timo, pomelo, granatina). Si rapporta alle altre annate come Gozzano ai coevi crepuscolari. Nonostante tutto conserva il nerbo essenziale, resta dritto e si lascia bere bene.

2006: A-wop bop-a loo-mop. Il crepuscolo è un ricordo e dopo l’annata poco solare, all’insegna della parsimonia, ecco un’opulenza policroma, quasi lasciva, di esperidi e drupe succosi: in primo piano amarena, sorba, mela renetta, anguria. A far da sfondo succo d’arancia rossa, melagrana, ribes, rosa canina, mandarino e gelso. Si accende inusitata persino la spia verde-pontina (o oceanica): il kiwi. E ancora: macis, ruggine, ginepro, geranio, viola. La sensazione di densità e vivacità si conferma al sorso, che colpisce per sfericità e impressione tattile, con la crudezza giovanile dei tannini ad accentuare i toni più freschi e minerali (ferro, sale). C’è tutto, il dolce e l’aspro, la carezza e il morso. Nonostante la dovizia di materia ha slancio, energia e grazia. A-lop bam-boom.

2007: ancora il frutto, per questa volta in versione meno matura, più elegante e prevalentemente “piccola” (ribes, aronia, lampone, fragolina). In aggiunta le note più tenui di fiori, liquirizia dolce, kirsch, anice, cipria. Beva di facilità esemplare, grazie in primis all’equilibrio dinamico di freschezze e morbidezze, al contrappunto dei tannini che qualcuno dei commensali definisce “variegati” in virtù del loro manifestarsi ora per mordenza, ora per sinuosità. Sensazioni gustative altrettanto variate, prevalenti di frutto, accessorie d’erbe aromatiche (rosmarino, salvia), tabacco dolce e caffè, tutte ben definite e proporzionate.

Just for the record: nessun voto in centesimi ma semplici preferenze, espresse dai degustatori e sommate per un podio esagemino: due primi, due secondi e due terzi dizigoti. Nell’ordine: 2001 e 2004, 1989 e 1997, 1998 e 2006.

(Foto: Andrea Federici)

 

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

13 Commenti

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francesco vettori

circa 11 anni fa - Link

Complimenti per l'articolo!

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Andrea Petrini

circa 11 anni fa - Link

complimenti per la bevuta!! :)

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Andrea Federici

circa 11 anni fa - Link

Grande articolo! ... direi complimenti anche al fotografo :-D

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Armando Castagno

circa 11 anni fa - Link

Si resta così.

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Diego

circa 11 anni fa - Link

Più degustazioni e meno gossip, hurrà! Non ho mai assaggiato annate pre '99 (quest'ultima grandissi). Concordo con la grandezza del 2004 e del 2006...

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Exafo

circa 11 anni fa - Link

Sempre un enorme piacere leggerti, even if ad un sesto grado letterario non si è tanto allenati e non soliti a bevute si eccelse

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Nelle Nuvole

circa 11 anni fa - Link

"...la virtù di arrivare a un massimo di concentrazione espressiva dal minimo di materia e densità possibile." Questa la frase da salvare prima di addentrarsi a colpi di machete nella ricchissima foresta della prosa giannonica. L'aiuto e l'invito alla lettura viene anche da una fotografia in cui l'Osso San Grato si trasforma in Oro Davvero Grato, per il colore delle vigne e la liquida luce autunnale.

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dazerovini

circa 11 anni fa - Link

Nord Piemonte... da non sottovalutare.

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Andrea

circa 11 anni fa - Link

...endemico nelle Langhe rapsodico altrove..mi sembra più corretto dire endemico in Valtellina dove peraltro tutte le altre varietà presenti (molto minoritarie rispetto al nebbiolo) sono direttamente imparentate con il nebbiolo (fonte Università di Torino). Lassù non ci sono nè dolcetti nè barbere (con tutto il rispetto per qss vitigni)

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suslov

circa 11 anni fa - Link

grande articolo grande libidine grande invidia

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Simone e Zeta

circa 11 anni fa - Link

WOW

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william lee

circa 11 anni fa - Link

chapeu!!

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Manilo

circa 11 anni fa - Link

Come al solito dal tuo articolo, sembra che chi ti legge abbia bevuto con te, come ben tu sai la mia passione per le verticali, leggendoti mi hai fatto venir voglia di una orizzontale e se ci riesco sarai tu a condurla,complimenti al fotografo, come sempre.

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