Trilogia Goriziana #2. La bellezza, la classicità e, infine, l’arte di Valter Mlečnik

di Emanuele Giannone

Valter Mlečnik (Bukovica, Vipavska Dolina). Se mai potessimo imparare a descrivere il vino senza appellarci ad astrazioni impervie e metafore stente, a dire ad esempio “ribolla della Vipavska Dolina” e per ciò stesso significarla ad arte e come tale inquadrarla nel suo momento simbolico, o in quello classico, o in quello romantico, per il secondo momento esisterebbe un riferimento possibile. Non ho mai chiesto a Valter Mlečnik se si diletti di fenomenologia di uno spirito diverso da quello del suo vino. Lui, che non ha proprio l’habitus del filosofo idealista, è tuttavia sensibile e teso verso l’infinito, quindi si studia di ricercarlo e intuirlo nel finito. Perciò riconosce il bello e sa produrlo: i suoi vini sono il più delle volte belli in senso classico. Rappresentano, non allegorizzano, un nudo e naturale equilibrio tra sostanza e forma. Non pretendono di stabilire un canone perché è solo a quell’intuizione – il bello – e alle diverse, non canoniche forme nelle quali la sostanza si manifesta, che lui si interessa.

Mario Soldati individuava una distinzione tra artefatto e opera d’arte nell’essere il primo calcolato e programmabile in termini di tempi e metodi di lavoro, qualità e quantità del risultato, mentre la seconda sarebbe imprevedibile e misteriosa. Il vino, in particolare, è per Soldati qualcosa tra l’opera d’arte e l’essere vivente: entità al contempo naturale e artificiale, sistema complesso di elementi vitali e delle loro interrelazioni, ma oggetto di cure, intenzioni e attenzioni – oggetto tecnico – al pari dell’opera artistica. Quando si valuta la possibilità di considerare il vino un’opera d’arte, ci si riferisce di solito più all’esperienza estetica della degustazione che alla genesi – ideazione e produzione – dell’opera. Valter rappresenta un valido stimolo a reindirizzare la ricerca, a centrarla sull’artefice e sul suo ruolo culturale e artistico: quello della competenza, conoscenza incorporata nell’uomo attraverso lo studio, la pratica e l’etica del lavoro. La conoscenza che abbraccia la comprensione delle potenzialità di un’uva e di un vino e che intenzionalmente, cioè tecnicamente, si studia di agevolarne la piena espressione. Anche quest’anno, intanto, i suoi vini – di prossimo imbottigliamento – agevolano a comprendere la cura, l’intenzione e l’attenzione profuse da chi ha tanto chiaro quanto a cuore il valore estetico, culturale e simbolico del fare così come del bere vino.

Cuvée Ana 2007. Chardonnay, tocai, malvasia, pinela, ribolla. La definizione ormai invalsa di orange wine è riduttiva per questo taglio che deriva in realtà da macerazioni brevi. Intensità e finezza dell’estrazione – caratteri irriducibili in molti tentativi del genere – risultano in una carnosità agile e appagante, nella sapidità spiccata ma perfettamente infusa, in tannini diffusi e netti, non distali, né invadenti. Rispetto all’ultimo incontro (marzo 2013) il vino ha guadagnato in definizione, slancio e quindi facilità di beva. Il naso è una composizione di plurimi sfondi in una sensazione affiorante di unità: molti cenni di frutta gialla (pesca, albicocca) e a bacca rossa, fave, garofano, cerfoglio, radici, mitili, soffusi e discreti, nessuno in primo piano. In degustazione risaltano la consonanza tra materia e vettore acido e la dinamica gustativa senza pause, il centro bocca ricco in sapori e la lunga persistenza di sale e, più tenui, fico, gelatina di albicocca e sorba.

Rebula 2008. Associare idealmente vini esigenti a un produttore esigente è un errore logico. In annate più magre, maestria e modestia concorrono a rendere versioni non banalmente riduttive, di certo più agili, aeree e passanti. Questo vino immortala un’annata accidentata in compiutezza e linearità, sondando proprio l’essenza della Ribolla di qui: niente numeri immaginari, solo interi e positivi, cioè per definizione naturali. È di una bontà immediata, accogliente e generosa, che sovverte le aspettative: ci si aspetta un vino esigente, si trova un vino esatto.

Chardonnay 2008. Altra essenza: naso più ricco, chiaro nei riferimenti a frutta gialla matura, nocciola, radice di liquirizia e agrumi canditi. Maggior souplesse e calore al gusto, in sintonia con l’acidità svettante, la fondamentale sapidità, l’ossatura di un estratto nobile che dona assetto e concretezza a questo Chardonnay longilineo e flessuoso, diritto e senza mollezze, che in persistenza si permette il vezzo di un segnale di fumo, torrone, albedo, zenzero e pietra calda.

Furlanski Tokaj 2009 (nome da determinare). Fico, mandorla dolce, pera matura, mirabella e gelso. Ginestra, alga, cedrata, ginepro, tè darjeeling, muschio. La nota fissa, bassa, di una mineralità perfettamente infusa. In bocca è di notevole concentrazione aromatica, composto e austero, incisivo nella componente tattile. Superbo per presenza gustativa: è pieno e si distende precedendo i riconoscimenti, li rivela di misura, coralmente e senza intasamenti. Soprattutto batte, fende e terge. Dosa, quasi nasconde il calore. Svolge l’acidità come vettore dei sapori, mentre la sapidità li esalta. Dopo il sorso riecheggia in un’impressione di minuti.

Furlanski Tokaj 2007 Angel. Descrivere un vino come unitario e monumentale può essere, a meno di una spiegazione, velleitario e finanche controproducente. Per giunta, sempre correndo sul filo del malinteso, qui si fa appello alla categoria dell’originalità. Occorre anzitutto riferire unitario e monumentale a una speciale definizione di intensità e densità, alla loro compiuta coesione, all’energia che scaturisce dalla loro fusione. L’energia è il più immediato riscontro dell’originalità di Angel: impone ritmo e linee tematiche, investe, suscita partecipazione. L’esordio è misurato, lo sviluppo è il risoluto, progressivo svolgimento di temi che armonizzano in crescendo, offrono variazioni di timbro e dinamica, alterazioni, ripetizioni cicliche. È elevazione più che tensione: infatti la progressione gustativa segna un’ascesa assimilabile a un andamento iperbolico, raggiunge un’intensità apicale e su questa insiste a lungo, prima del lungo diminuendo. Proprio quest’andamento chiarisce in via definitiva il senso della monumentalità: impressione e coinvolgimento di magnitudine superiore. Monumentale e sublime.

P.S. – Per le riflessioni maturate e qui esposte sono grato in pari misura a Nicola Perullo per il suo saggio Wineworld: Tasting, making, drinking, being (vd. Rivista di Estetica n° 51 nuova serie, Rosenberg & Sellier) e ad Anton Bruckner, monumentale e sublime.

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

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