Raffaele Mastrovincenzo, la mia esperienza a Melbourne

Raffaele Mastrovincenzo, la mia esperienza a Melbourne

di Jacopo Cossater

Solo qualche giorno fa scrivevamo di Raffaele Mastrovincenzo, sommelier attualmente in forze al ristorante Kappo, a Melbourne, e del premio che gli è stato assegnato dalla rivista australiana Gourmet Traveller: Sommelier of the Year. Nel congratularci non potevamo non metterci in contatto con lui per alcune domande sulla sua vita lontano dall’Italia e sul suo lavoro.

Grande Vincenzo, complimenti! Prima di tutto come hai iniziato, qual è stato il tuo percorso e SOPRATTUTTO come sei finito in Australia?

Ah, guarda, è semplicissimo. Circa 8 anni fa a Sorrento ho conosciuto una ragazza australiana e dopo una lunga serie di vicissitudini ho deciso di andare a trovarla a Melbourne. Eccomi qui, mi sono fermato.

Ma non sei sempre stato in Australia..

No, infatti. A New York ho vissuto un’esperienza fantastica. Tre mesi in cui mi sono letteralmente scontrato con le tantissime sfaccettature delle diverse cucine del mondo. Un’esperienza fondamentale che mi ha fatto capire quanto fosse importante per me continuare a viaggiare ed esplorare la ristorazione non solo italiana (per quanto io sia legatissimo alla mia terra di origine, l’Abruzzo: un giorno ci tornerò di certo).

E una volta arrivato?

Appena arrivato a Melbourne mi sono detto: “non voglio lavorare in ristoranti Italiani, nessuno fuori dall’Italia può ricreare quello che succede nello Stivale”. Così ho mandato via email il mio curriculum a ristoranti che avessero una carta dei vini che mi intrigasse ma al tempo stesso con una cucina a me nuova. Dopo diversi insuccessi ho trovato lavoro in un ristorante di cucina contemporanea chiamato Verge, in pieno centro a Melbourne. Un locale che poteva vantare “Two Hats” della Good Food Guide, qualcosa di simile a quelli del Gambero Rosso in Italia.

Oggi non c’è più e lo chef di allora, Dallas Cuddy, lavora a Singapore (l’anno scorso è stato anche votato come chef dell’anno in Asia). Lui per me fu un grande spartiacque, aveva una grande tecnica e aveva influenze gastronomiche molto interessanti. Con lui provai per la prima volta spezie come il pepe giapponese Sancho o il pepe cinese Sichuan. O le diverse alghe, dal wakame al kombu, da hijiki al nori. Cominciai così a comprendere un nuovo mondo e immaginare accostamenti per me nuovi, come quelli con il sake.

Figurati che un giorno a pranzo servii il grande Stefano Bonilli (R.I.P.), e dopo lui fece un post sul suo blog su me e Dallas.. Quando lo chef decise di partire per Singapore, dopo circa un anno, ero però senza lavoro. Ero a un passo da tornare in Italia quando uno dei più importanti ristoranti di Melbourne, il Vue de Monde di Shannon Bennet, mise un annuncio sul giornale per un sommelier, così iniziai lì. Un posto pazzesco, al 52° piano del grattacielo più alto di Melbourne, con una carta mastodontica. Mi ritrovai a lavorare da un posto molto intimo a una macchina da soldi, dove i clienti potevano scegliere tra verticali di Salon, Vielles Vignes di Bollinger, Coche Dury, DRC fino ovviamente al Grange di Penfolds.

Lì però non mi trovavo per niente bene, faticavo a trovare il giusto feeling con lo staff, tutto francese, così mandai il mio curriculum ad Attica, oggi il 32° ristorante al mondo per la 50 Best della San Pellegrino. Un’esperienza magnifica, Ben Shewry è una sorta di genio gastronomico e la carta dei vini è fantastica. Ho lavorato con lui per 3 anni prima di decidere di tornare in Italia.

Sono durato poco però, dopo appena 3 mesi sono tornato a Melbourne, un vecchio amico mi aveva chiesto di aiutarlo a fare una carta dei vini per un nuovo ristorante che stava aprendo. Ci lavoro dallo scorso settembre.

Kappo, vero?

Sì, un ristorante giapponese. Come mi trovo? Sinceramente sono molto disorientato, sono l’unico non giapponese e tutti i giorni attorno a me sento solo parlare giapponese, a volte mi sembra di vivere un film di David Lynch. Lavoro molto con i sake e con i shōchū (un distillato giapponese, ndr) e comprendere le etichette è un’avventura, specialmente quando devo fare l’inventario (lì il beverage è tutto di mia competenza). Per almeno un aspetto però sono fortunato: il “sake master”, Takashi Omi, ha un inglese fantastico quindi da lui sto imparando un sacco di cose sul Giappone e il sake in particolare.

Per quello che riguarda gli abbinamenti? Ti diverti?

Lavoriamo un sacco con gli abbinamenti, il nostro menù più ampio prevede 9 portate e il 70% della clientela sceglie l’abbinamento sake/vino. Ti ascoltano molto, io per dire cerco sempre di usare cose strane come i koshu, i sake con molti anni alle spalle, i kimoto o gli yamahai (sake molto naturali fatti con lieviti indigeni e interventi minimi), vini bianchi frutto di lunghe macerazioni sulle bucce, spirits quando ho piatti che me lo permettono.. Certo, non sempre vengo capito però ci provo, voglio sperimentare il più possibile.

E vini italiani? C’è qualcosa che proponi con maggior frequenza?

Il vino Italiano che più mi ha dato soddisfazioni in questo locale è il “Vignammare” di Barraco abbinato al sashimi, chi lo ha provato è impazzito dal godere. Figurati che con questo abbinamento ho anche avuto un paio di recensioni su quotidiani e magazine di settore. Quella percezione di mare che il vino riesce a dare con la sua estrema sapidità e quell’odore di alghe e salsedine in abbinamento al pesce crudo è un matrimonio perfetto.

Poi spingo molto i bianchi a macerazione del Collio e del Carso, trovo che la percezione dei terpeni e polifenoli della buccia bianca può benissimo pareggiare l’umami della cucina giapponese. Nel ristorante c’è un consumo di Borgogna molto elevato, quando posso però cerco sempre di dirottare il cliente verso alcuni rossi italiani. Con Barolo e Barbaresco riesco a fare un discreto lavoro, quando riesco gioco con il Nerello Mascalese etneo, una delle zone più eccitanti per i rossi in Italia.

Ok, a proposito di Italia quale pensi sia la percezione del nostro vino all’estero?

Il vino italiano qui è molto apprezzato specialmente per il rapporto tra qualità e prezzo. I giovani sommelier con cui condivido degustazioni e bocce nel tempo libero sono molto interessati al nostro patrimonio vitivinicolo. Un aspetto molto importante perché adorano lavorare con i vini italiani. Avere in mescita un vino italiano fa infatti sempre girare i soldi al ristorante, è ottimo per rientrare nel “cost of good” e per soddisfare il KPI ( key performer indicator), soprattutto se vai a cercare le denominazioni meno conosciute. Per intenderci, attualmente può costare meno comprare un vino italiano che un australiano a causa dell’economia, qui molto positiva. Quando vado in giro per ristoranti trovo sempre al bicchiere un Chianti, un Aglianico, alcuni bianchi, tutti vini di sicura qualità.

Attualmente sempre più produttori qui in Australia piantano vitigni italiani come nebbiolo, barbera, nero d’avola, sangiovese e molti altri e questo è molto importante: fa acquistare familiarità con questi vitigni al consumatore locale. Quindi ben vengano vigne fuori dall’Italia con i nostri autoctoni, aiutano il nostro mercato.

A lungo termine sarebbe importante riuscire a imporsi sempre più all’interno dei corsi per sommelier come il WSET o la Court Master Sommelier.  Nei seminari o negli esami l’Italia è vista con un pochino di superficialità: se con la Francia i relatori spendono una settimana di lezioni, l’Italia viene illustrata in un giorno, massimo due. Anche se queste scuole rispettano molto i nostri vini la percezione finale dello studente è molto diversa, è naturale che una volta diplomati vadano a creare in giro per il mondo carte dei vini di chiaro stampo francese.

[Immagini: Kappo, Melbourne]

Jacopo Cossater

Docente di marketing del vino e di giornalismo enogastronomico, è specializzato nel racconto del vino e appassionato delle sue ripercussioni sociali. Tra gli altri, ha realizzato i podcast Vino sul Divano e La Retroetichetta, collabora con l'inserto Cibo del quotidiano Domani e ha cofondato il magazine cartaceo Verticale. Qui su Intravino dal 2009.

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