Quasi un Manifesto: parlare di vino o parlare <em>col</em> vino?

Quasi un Manifesto: parlare di vino o parlare col vino?

di Antonio Tomacelli

Abbiamo chiesto a Nicola Perullo, professore associato di Estetica all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, un’anticipazione del suo libro di prossima uscita. Ecco il suo testo.

A marzo uscirà un mio lavoro dal titolo Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto (Mimesis Edizioni). Non è un libro sul vino; non discute di territori, di profili sensoriali, di denominazioni né presenta infinite degustazioni con valutazioni accluse. È un saggio che, attraverso il vino ma anche grazie al vino, promuove un modello di conoscenza relazionale, partecipata e processuale. Un modello diverso da quello dell’oggettività, sul quale siamo, più o meno consapevolmente, abituati a “tarare” molto di ciò che ci circonda: purtroppo, anche il vino. Sul piano teorico, la mia proposta si basa su un insieme di  argomenti filosofici, antropologici, estetici, semiologici e storici che costituiscono lo sfondo del piano pratico, nel quale descrivo esperienze e percorsi con l’intento di spostare l’attenzione dal sapere su al sapere con. Con entrambi i piani, ho cercato di tirare le fila del mio doppio percorso: quello di filosofo eclettico ed eterodosso e quello di appassionato amante del vino da circa ventitré anni.

Non nego affatto che sia utile e anche  bello sapere molte cose sul vino. Ho cominciato a interessarmi dell’amato liquido nel 1992 e, nel mio piccolo, ho seguito tutto il classico iter che mi ha portato, per un certo periodo, sia a collaborare stabilmente alla cultura delle guide, sia a insegnare, apprezzare e coltivare il gusto. Non rinnego questo percorso: Epistenologia non è una negazione o una rimozione polemica. Semplicemente, essa propone un modo radicalmente diverso di approcciarsi al vino per mostrare come, con esso e grazie ad esso, coloro che lo amano e lo apprezzano possano fare anche esperienze diverse da quelle della descrizione presunta “oggettiva” e dell’apprezzamento come giudizio basato su presunte caratteristiche che avrebbe di per sé quel vino.

Nel caso specifico, il suggerimento al quale invito con il mio libro è: perché non parlare un po’ meno di vino o sul vino, e parlare un po’ di più con lui? Dove la preposizione “con” vale nei due sensi: parlare col vino, in quanto ente vivente, cioè dialogare con lui come fosse  animato e capace di corrispondere con noi; ma anche  parlare grazie al vino, quale conduttore, attore o sfondo di un determinato contesto. Un vino, questo vino che sto bevendo e di cui godo adesso, è compartecipe dell’esperienza in cui anche io, e chi è con me, è coinvolto. E può essere protagonista di quest’esperienza anche senza che si parli esplicitamente di lui.

Perché faccio questa proposta? A un certo punto, circa cinque anni fa, ho cominciato a provare un certo disagio per il modello standard dell’apprezzamento del vino, un modello che viene quasi sempre trasmesso come se fosse ovvio, naturale, e l’unico possibile. Così ovviamente non è: questo modello ha una storia e risponde a determinati scopi ed esigenze. Questo disagio, peraltro, negli ultimi anni, è condiviso da tanti appassionati: da più parti si dice che bisogna cambiare modo di approccio al vino, che occorre un linguaggio più libero e meno autoreferenziale, ecc. Il punto, però, secondo me, è che il vero limite del modello che in molti critichiamo sta nel manico; e il manico è proprio l’ideologia della degustazione intesa come pratica e attività superiore, più oggettiva, del bere. Il modello della degustazione analitica standard, basato su elenchi e tabelline nelle quali costringiamo ad entrare il nostro apprezzamento, è il modello che si basa sul paradigma oggettivo: c’è un soggetto che percepisce un oggetto e, nel caso in questione, lo valuta e lo giudica come se fosse qualcosa che esiste di per sé, indipendentemente da me o da noi che lo beviamo. Le domande che ho cominciato a pormi, come filosofo e come estetologo ma innanzitutto come amante del vino, sono domande in apparenza semplici ma, credo, decisive e profonde. Per esempio: perché la “valutazione” del vino “più oggettiva” sarebbe quella che si fa in una stanza, in silenzio, con tanti bicchieri in fila come polli d’allevamento in batteria – una situazione totalmente astratta e artefatta – e non, eventualmente, quella dove il vino è messo alla prova nel suo ambiente “ordinario” e comune,  in cui si mangia, si parla, si ascolta musica, si legge qualcosa? Ovviamente conosco la risposta, ma allora la domanda diventa quella relativa al significato della critica oggi, all’interno dell’economia di mercato, e la cosa ci porterebbe lontano, e qui non è il luogo. Oppure: perché qualcuno sostiene in modo dogmatico pensieri come “un grande vino deve essere comunque complesso”? I Beatles, per esempio, sono stati indubbiamente grandi senza essere complessi, e perché il vino non potrebbe altrettanto? E la complessità sta nel vino o nella mia relazione interattiva con esso?

Da queste riflessioni, collegate alla mia pratica che sempre di più inclinava a preferire una bella bottiglia da bere piuttosto che tanti bicchierini da roteare e degustare, è nata l’idea dell’epistenologia, che è un doppio gioco di parole a significare, da un lato, l’epistemologia del vino, dall’altro, l’impossibilità di separare l’ontologia (ciò che vorrebbe stabilire l’essenza, la natura del vino in sé) dalle esperienze che ne facciamo, appunto, da come lo  conosciamo e ne godiamo (epistemologia).

L’epistenologia parte del presupposto che il “vino” – o almeno, non tutto quello che va sotto il nome di “vino” – non sia riducibile a un oggetto/merce da misurare. Metto le virgolette al vino perché non credo che esista qualcosa come “il vino” in sé: esistono vini, bottiglie incontrate, esperite, bevute. In ogni caso, per motivi che attengono tanto alla storia che alla cultura di questa bevanda, il vino possiede proprietà che vanno molto al di là della sua catalogazione secondo schede di riferimento prefissate e univoche. Quindi la mia proposta cerca di  suggerire che il vino si può percepire anche come un’entità viva e vitale da incontrare e con cui si può entrare in relazione. E come in tutte le relazioni, si creano immagini, percorsi, metafore, nuove possibilità. Epistenologia propone dunque di lavorare creativamente e attivamente, attraverso la relazione col vino, a nuove lingue: più individuali e personali, da un lato, ma anche altrettanto comunicabili e condivisibili, dall’altro.

Può sembrare non immediato, ma in questo saggio cerco di convincere che tra la descrizione: “sentori lievi di bacche rosse  inizialmente, poi emerge un soffuso  sottofondo di roccia vulcanica, per chiudere su un tripudio di  erbe caramellate” e “pomeriggio d’inverno con te, sdraiati sulla spiaggia” non c’è alcuna differenza in termini di “oggettività” rispetto al “vino”. Sono due modi entrambi convenzionali e negoziali, ma non per questo arbitrari, di fare-segno col vino. Credo però che oggi, noi, qui, della seconda descrizione abbiamo più necessità che della prima, perché meno irrigidita e più viva.

Ciò che crediamo essere il linguaggio “tradizionale” e solido della degustazione è stato in realtà codificato da poco: le ruote degli aromi, le schede con le crocette e i punteggi, la successione (che pare naturale!) vista-olfatto-gusto, sono tutte cose diventate norma col tempo. In particolare, dalla seconda metà del Novecento, con la scuola enologica di Davis prima e poi con il giornalista Robert Parker. Se si va a vedere come parlavano di vino i grandi esperti del passato non si trovano certe descrizioni. Quindi bisogna comprendere che la grammatica del vino degli ultimi 50 anni si inserisce in un discorso più ampio, che lega una certa idea di scienza oggettiva e un po’ riduzionista anche alla sensibilità. I limiti di questo linguaggio sono dunque essenzialmente due: il primo, non comprendersi come storicamente e culturalmente prodotto. Spesso questi degustatori e sensorialisti del gusto non hanno alcuna consapevolezza storica. Il secondo limite è legato alla rigidità e alla povertà espressiva di questo linguaggio, che riduce ogni esperienza col vino a poche parole, sempre le stesse, inserite in un codice fisso e univoco, del tutto non caratterizzato, che prescinde dai contesti, dalle esperienze, dai cambiamenti che anche il vino subisce e produce. Le lingue del vino sono molte, perché col vino si possono progettare differenti percorsi e obiettivi: venderlo, abbinarlo al cibo, berlo per intossicarsi, berlo per condividere un momento importante, ecc.: come si può pensare di ridurre tutto questo a una scheda analitica referenziale che descriverebbe la “realtà oggettiva” del vino?

Poi, il problema è che il vino non si legge; si beve. La degustazione è una lettura intellettuale del vino. Nella degustazione, il gusto è usato come senso teoretico, che interpretando il vino come oggetto ne tiene a distanza le proprietà più evidenti (come il potere inebriante e socializzante o la capacità dissetante). L’epistenologia propone di considerare il vino non come oggetto ma come sostanza che si mescola a noi che beviamo. La descrizione di una degustazione cerca di restituire il senso di un’esperienza fatta da qualcun altro, di solito; ma questo ci dice assai poco di quello che poi accadrà quando berremo quel vino. Quindi, quando si scrive di vino bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di mettere a nudo i propri presupposti, cosa noi ci aspettavamo, il contesto in cui lo abbiamo bevuto, ecc., così da dare al lettore più informazioni possibili non solo sul vino ma sull’esperienza con quel vino. Per me, la descrizione scritta di un vino è come la fotografia di una relazione in un dato momento: coglie un aspetto, una particolare situazione, mai il tutto. So benissimo che le esigenze giornalistiche o di mercato non possono consentire questo tipo di approccio; però, quando le esigenze sono quelle dell’amatore, del frequentatore e del conoscitore “ordinario” (i contesti in cui si beve il vino nel 99,9% dei casi) si può certamente cambiare modello. Godere il vino e, se si vuole proprio parlarne, aprirsi a  narrazioni più aperte, duttili e creative realizzate con strumenti linguistici molteplici (non necessariamente verbali).

Pensate all’atteggiamento standard del degustatore. Subito questa smania di giudicare, di capire subito quel che va e quel che non va. Questa estetica ridotta al giudizio, che miseria! Poche centinaia d’anni di estetica del giudicare, della soggettività giudicante, e si crede che questo sia l’UNICO modo di rapportarsi a qualcosa sul piano non razionale: GIUDICARLO esteticamente. L’epistenologia, su questo piano, cerca di superare l’estetica borghese dell’oggetto, del prodotto, del criterio di valutazione e dell’unico dio, a favore di un’estetica sciamanica, plurale, godibile e pagana.

L’epistenologia, dunque, non è un gioco di abilità – non mira a vedere chi ne sa di più, chi è più “bravo”. Con essa, si effettua il passaggio dal sapere SUL vino al sapere CON il vino, per creare esperienze significative. Per questo, tutte le lingue hanno pari dignità e pari diritto. Lo scopo non è costringere l’immaginazione nel giudizio, piuttosto è liberare il giudizio nell’immaginazione.

Tutti i vini sono uguali, dunque? Certo che no. Esattamente come ci sono persone con cui è più facile entrare in relazione, fare certi discorsi, progettare o scambiare esperienze, così ci sono vini più vivi e vitali di altri che favoriscono uno scambio attivo e che producono orizzonti di senso dentro ai quali ci sentiamo più soddisfatti e felici.

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Antonio Tomacelli

Designer, gaudente, editore, ma solo una di queste attività gli riesce davvero bene. Fonda nel 2009 con Massimo Bernardi e Stefano Caffarri il blog Dissapore e, un anno dopo, Intravino e Spigoloso. Lascia il gruppo editoriale portandosi dietro Intravino e un manipolo di eroici bevitori. Classico esempio di migrante che, nato a Torino, va a cercar fortuna al sud, in Puglia. E il bello è che la trova.

28 Commenti

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senzapatria

circa 8 anni fa - Link

Beh... se vuole parlare "con" il vino, basta berne in giusta quantità!

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Enzo

circa 8 anni fa - Link

Bell'articolo! Ma leggendolo mi sono subito chiesto se "Il "vino"? Col tarapio tapioca come se fosse antani la barella anche per due, con lo scappellamento a sinistra? No, eh? Pazienza..." :-D

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Armando Castagno

circa 8 anni fa - Link

Trovo questo scritto meraviglioso.

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jJosè Pellegrini

circa 8 anni fa - Link

Concordo con Armando Castagno. La fantasia sarà il vero segreto della nuova comunicazione del vino?

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amedeo

circa 8 anni fa - Link

Articolo davvero interessante. Merita un'attenta riflessione.

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giovanni

circa 8 anni fa - Link

Un articolo che condivido in tutto e per tutto le rivolgo una sola domanda: si può insegnare a sognare?

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Emanuele

circa 8 anni fa - Link

L'articolo è bellissimo. Con buona pace dei mangiatori di papponi di tapioca.

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rampavia

circa 8 anni fa - Link

Vedo migliaia di giornalisti, blogger, critici enoici e di sommelier professionisti sulla strada a cercare di scaldarsi con il rogo delle guide dei vini e delle schede di degustazione e ad elemosinare un tozzo di pane ed un bicchiere di vino. Bicchiere di cristallo, please.

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Nelle Nuvole

circa 8 anni fa - Link

Sto rileggendo questo testo per la terza volta. Non perché sia difficile da capire, ma perché pieno, strapieno, di spunti molto interessanti. Per esempio la "consapevolezza storica" spesso mancante ai degustatori, vero, ma non fondamentale per me se il ricevitore del giudizio sensoriale è interessato solo al risultato finale dentro quel bicchiere. Bisogna quindi che cambi anche l'atteggiamento di chi legge e non solo di chi racconta come sta parlando COL vino. Fondamentale è invece il superamento della rigidità e della povertà espressiva del linguaggio, questo sì. Imparare a scrivere con le parole giuste che possano essere recepite senza tanti arzigogoli. Va bene la fantasia, ma ci vuole anche umiltà e talento per porsi come "parlatori col vino" in grado di condividere ciò che hanno da dire. Riguardo al paragone dei Beatles, costoro hanno cambiato il paesaggio musicale contemporaneo con canzonette e musichette solo apparentemente semplici. Per la verità la loro musica è complessa perché è stata unica ed innovativa, nonostante la facilità di comprensione da parte dei più.

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michele fino

circa 8 anni fa - Link

Lavorare CON Nicola Perullo è un assoluto privilegio. Chapeau.

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Gabriele Rosso

circa 8 anni fa - Link

Bè il punto interessante che emerge da questo articolo è quello che riguarda la critica di un certo modo (da tromboni, diremmo) di degustare e descrivere i vini. Liberare la degustazione da vecchie e polverose gabbie permetterà di liberare anche la descrizione? Lo si spera, vivamente. Ne abbiamo bisogno.

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michele fino

circa 8 anni fa - Link

Gabriele, Mi sembra che Nicola vada un po' più a fondo della questione e metta in discussione non tanto una religione proponendone un'altra, quanto il concetto di religione stesso, se mi passi la metafora. In questo senso, sì che il suo sarà un manifesto e sì che ne abbiamo bisogno: Per recuperare liberta e fantasia e capire non che i dogmi di ieri sono fasulli, ma che i dogmi in sé sono inutili e dannosi. Non credi?

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Davide Bonucci

circa 8 anni fa - Link

Un ottimo promemoria di quel che ci diciamo e facciamo da anni, in realtà. Vale più una "BEVUTA SERIA" tra amici che un intero corso di degustazione. Ogni bottiglia fa storia a sé. Ogni nostro momento di vita fa storia a sé, e quel che beviamo in quel dato momento non ha nulla di oggettivo. Ci può essere una convergenza nel sentire, ma è probabile che questo avvenga per una certa omogeneità di esperienze in comune ( tra degustatori professionisti succede, così come tra amici di bevute). Resta il 99% del sentire, inesplorato. Quali immagini mi evocano le percezioni di un certo vino? Perché sento la necessità di descriverlo con quelle parole? Quanto della mia formazione di degustatore, ma soprattutto di uomo con una cultura, si coagula nelle sensazioni e quindi nel vino parlato e scritto. La miglior bevuta di ognuno di noi appartiene alla nostra intimità, e sarà probabilmente prossima ad una bella immagine mentale, un buon periodo, una buona compagnia, un buon pasto, una buona notizia. In poche parole, un vino diventa indimenticabile nel momento in cui è stato compagno della nostra felicità. E su questo siamo solitari e indiscussi arbitri, in un costante dialogo con la nostra coscienza.

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Maurizio Gily

circa 8 anni fa - Link

Critica della Degustazion Pura

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sergio

circa 8 anni fa - Link

E' un grandissimo passo in avanti, forse una rivoluzione, nel modo di "vivere" il vino e di come raccontarlo. Ed è un approccio molto più vicino a quello che gli uomini di tutti i tempi ed anche gli uomini di oggi "sentono". Non so quanto questo saggio inciderà sulla cultura del vino ma, sicuramente, non sono pochi quelli che..."aspettavano" che qualcuno dicesse, in modo autorevole, queste cose. .

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bruno

circa 8 anni fa - Link

Sembra proprio il libro che stavo aspettando. Spero sia un punto di svolta di questo mondo comunicativo che ha l'esigenza di evolversi ma riprendendo la grande esperienza del passato. Credo che Gianni Brera e Mario Soldati lo leggerebbero. Con buona pace di chi pensa ancora a rendere il mondo del vino seducente.

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Simone Revelli

circa 8 anni fa - Link

Qualsiasi amante che si sia cimentato con un minimo di umile consapevolezza alla scrittura "intorno" al vino si è posto certe domande. Si è scontrato con lo stesso senso di sterilità. Questo scontro ha indotto in me il silenzio, che dura da un po'. Ma la ricerca di un modo nuovo, o anche solo un modo diverso, va avanti. Questo libro può essere un buono spunto per aggiungere qualcosa.

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Giuseppe Conversano

circa 8 anni fa - Link

Immagino una "ecologia del vino" al plurale. Certamente il fulcro del ragionamento è il liquido che si assorbe (vino), colui e/o colei che lo assorbe (soggetto) e cio' che sta fuori (realtà),sempre meno reale e più linguaggio. Interessante potrebbere essere declinarlo (il vino) attraverso la nozione di inter-esse.

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Flavio Cantelli

circa 8 anni fa - Link

Complimenti, molto bello, umano e molto "porthosiano"

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Paolo Cianferoni

circa 8 anni fa - Link

In Cina non si può parlare di qualità del vino senza rappresentazioni figurate, cosa che manca da noi. Per descrivere un vino, invece per esempio di parlare del sapore di fiori di arancio in sè, occorre descrivere un ricordo, una scena vissuta come "ricordarsi quando andavo con mio fratello sotto quel l'albero in fiore, quando ero bambino". In effetti questo tipo di comunicazione da noi non esiste.

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Max Argiolu

circa 8 anni fa - Link

Scritto molto interessante a cui seguirà una attenta lettura del libro. Limitandomi a quanto letto, in fervente attesa del libro, ricondurlo ad un nuovo "modello" di degustazione è di certo riduttivo. Ne ho tratto una serie di spunti e riflessioni sullo spirito libero della degustazione che, per la mia umile opinione, non è tecnico/dogmatica (come molti attori del mondo del vino, associazioni varie in testa, vogliono farla passare) ma si arricchisce del contesto nel quale la si effettua. Altri "sensi" ne devono essere coinvolti, quali, ad esempio, la sopracitata memoria del degustatore, ed il vino non è solo "oggetto" della degustazione ma è veicolo della conoscenza, estetica, e quanto altro si condivide per suo tramite. La sinestesia della degustazione (cit.Sandro Sangiorgi) è una declinazione di quanto letto. Andando oltre la parte filosofica, bersi una buona bottiglia in altrettanto buona compagnia, personalmente, mi arricchisce molto più di una carriolata di degustazioni tecniche spesso accompagnate dal celodurismo del relatore/esperto di turno.

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lido

circa 8 anni fa - Link

immenso Perullo.

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sergio

circa 8 anni fa - Link

"Savoir reconnaître e savourer une bonne bouteille, c’est une marque de civilisation et de culture, comme de savoir apprécier una bon livre ou une belle statue".(Pierre Poupon, Nouvelles pensées d’un dégustateur, 1975) . Questo, mi sembra, l'approccio "dominante" nella degustazione del vino. In cui s'intravede l'oggettività che, per Perullo, è un limite da superare. Poiché Poupon fa il paragone con il LIBRO ho intravisto nelle parole di un altro francese(egiziano), il poeta Edmond Jabés, l'approccio "nuovo" che il prof Perullo propone.Spero di non essermi sbagliato, ma sarà la lettura del suo libro a correggere l'eventuale cattiva interpretazione del suo pensiero. . "Il rapporto al libro(vino) è personale. Un grande libro(vino) si rivela solo a colui che lo assume(come il vino). Mi diceva che noi stessi siamo un testo enigmatico, e cerchiamo, senza successo, di decifrare questo testo di pagina in pagina. Leggendo un libro(vino), aggiungeva, leggiamo solo quel poco che esso contiene della nostra anima e della nostra vita. E ciò che esso ci insegna basta, spesso, ad esaltarci di gioia o a distruggerci".(Edmond Jabés) (vino tra parentesi è una mia aggiunta) . PS Il dibattito è davvero stimolante per me.Ad esempio il riferimento a Sandro Sangiorgi di Flavio Cantelli e di Max Argiolu è interessante, ma, non avendo letto il suo libro e trovando non troppo chiare descrizioni nel web del suo approccio, chiedo a chi invece lo conosce di dire qualcosa in più. Così, in modo superficiale, mi sembra che il prof. Perullo vada oltre e cambia più profondamente il paradigma della degustazione del vino.

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Yann Grappe

circa 8 anni fa - Link

Un invito. Una riconciliazione. Una proposta per il dialogo col vino che va oltre al recitare sul vino. Un invito a "s e n t i r e", non solo col naso, ma a sentirlo con tutto noi stessi, da quando nasce nell'uva fino a quando diventa corpo, fino a quando diventa parte di noi stessi. Un libro che è un respiro, come quando magicamente davanti al mare aperto, ti senti spillare dentro, nuove idee, nuove riflessioni e nuove gioie.

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francesco vettori

circa 8 anni fa - Link

Trovo molto interessante e istruttivo l'approccio. Ci sono diverse cose che mi trovano comunque in disaccordo, non fosse altro per bisogno di confronto: la prima delle quali è la scelta di non distinguere ontologia ed epistemologia o meglio gnoseologia. Credere che quel che è corrisponda a quel che si conosce, lo trovo piuttosto limitante. Certo non come credere che quel che si conosce - scheda di degustazione - corrisponda a quel che è - il vino ma comunque ancora troppo vicino a questo atteggiamento. Che poi il vino sia mezzo, anche misterico, religioso, di conoscenza, è la sua storia ad esplicitarlo, in tutti i modi. Il senatus consultum de baccanalibus, per esempio, è del 184 A.C.

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Leon

circa 8 anni fa - Link

Insomma... Non capisco a chi è indirizzato l'articolo e quale modello critica. Se vuole essere per gli addetti al lavoro dice cose che ormai tutti sanno (comunque inquadrandolo filosoficamente bene) e non è chiaro quale modello di degustazione alternativa propone. Nella critica enologica il paradigma dei punteggi e delle schede analitiche (che secondo me sono più britaniche che americane) lo stiamo già superando, vedi Slowine e Enogea. Invece i consorzi non saprei come diversamente dovrebbero lavorare se non con degustazioni in laboratorio. Gli appassioti del vino sono consapevoli che il loro giudizio dipende da come si sentono nel specifico momento in cui bevono il vino. Non vedo tanta gente a cena dare punteggi insomma.

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sergio

circa 8 anni fa - Link

"Con essa, si effettua il passaggio dal sapere SUL vino al sapere CON il vino, per creare esperienze significative.Per questo, tutte le lingue hanno pari dignità e pari diritto. . Lo scopo non è costringere l’immaginazione nel giudizio, piuttosto è liberare il giudizio nell’immaginazione"(dal post di Perullo) . La conclusione del post racchiude, forse, il senso del suo lavoro. Sicuramente, dovremmo aspettare l'uscita del libro per avere una rappresentazione organica ed estesa del suo pensiero e chiarire i dubbi, Ma quella conclusione ha la forza delle parole evocative e...ci avvicina alla comprensione.Forse, negli approcci da te segnalati l'immaginazione è "ancora" inserita in una "griglia mentale" di analisi quantitativa. . Perullo rompe ( o allarga di molto) le maglie della griglia. E lascia più spazio all'irrompere dell'immaginazione, delle emozioni, dei ricordi, degli istinti, dei sentimenti... . Io penso che, nei prossimi anni, l'analisi quantitativa, che pure ha ed avrà un senso come accennavi tu, sarà sempre più delegata a strumenti sofisticati. Come sta avvenendo anche in altri ambiti, vedi i formaggi ad esempio. . All'interno della rivoluzione Perulliania della degustazione del vino forse rimarrà una differenza tra l'appassionato puro e il critico che deve scrivere, ad esempio, un articolo per un blog o una rivista.Ma anche il critico dovrà fare dei passi avanti rispetto ad oggi.E inventare un nuovo linguaggio. Ma capiremo meglio all'uscita del saggio. PS Leon, sono un dilettante.

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Marina

circa 8 anni fa - Link

bellissimo posso pubblicarlo sul mio blog? ma sì, certo, con i link e i crediti del caso come sempre. l'IBAN per il bonifico poi lo inviamo a parte. [F.]

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