Plonerhof e i vini di Erhard Tutzer. In Alto Adige oltre il biologico e il biodinamico

di Francesca Ciancio

Lo conoscono meglio i doganieri che Google, Erhard Tutzer, il vivaista altoatesino che per 50 anni, con la sua società Wine Plant, ha fatto ogni tipo di ricerca possibile sulla e con la pianta della vite. Da ogni suo viaggio non è mai tornato a mani vuote: una barbatella, dei semi, che valicavano la frontiera “clandestinamente”. Googlare il suo nome non offre granché ed è un peccato perché il signor Tutzer è uno di quegli uomini del vino che andrebbero conosciuti. Ora, alla soglia dei 70 anni, si è messo a fare il vino, che per lui è come chiudere un cerchio: l’azienda si chiama Ploner ed è a Marlengo.

La prima pietra è datata 1357, ma Tutzer la compra nel 2004. Era il classico maso chiuso, con al suo interno tutto quello che serviva al fabbisogno di una famiglia, tra i due e gli otto ettari di terra e il passaggio ereditario solo per linea maschile, a meno che la femmina non avesse condotto studi agricoli. Oggi ci sono 4 ettari e mezzo di vigne, piantate dove prima c’erano solo alberi da frutta; un espianto visto come un sacrilegio da queste parti. 50 per cento di Pinot Nero e il restante bianco, tra Sauvignon, Riesling e Pinot Bianco. “35 mila viti, quindi 30 mila bottiglie”, presto fatto il conto per Erhard. Tutta la conversazione in realtà è piena di numeri. A 16 anni chiede un prestito alla madre per comprare le prime 2000 piante, è uno dei primi 12 allievi della scuola di Laimburg; dopo 10 anni il vivaio è tra i più noti d’Italia, dopo 50 è il quinto privato a livello nazionale. Lavori in tutto il mondo, India compresa. Per l’azienda siciliana della trentina Mezzacorona mette a dimora 4 milioni e mezzo di piante.

E poi la passione per la ricerca che non ha mai abbandonato questo signore dritto come un fuso che pure deve essere stato chino tanto in vita sua. Il futuro si chiama Innovitis, una società che, in collaborazione con l’istituto di San Michele all’Adige, sta studiando viti resistenti ai crittogamici. Alcune di queste stanno già dando risultati notevoli come i bianchi da Bronner e Solaris, che non richiedono neanche l’uso di rame e zolfo. Come dire, oltre il biologico e il biodinamico. Qui parliamo di incroci interspecifici (cioè incroci tra diversi specie di viti) e non di incroci intervarietali: alla fine ce la fa chi resiste di più. “Il risultato, sempre che riesca, è lento – racconta Erhard – non prima di una decina di anni. E poi bisogna fare i conti con l’ostracismo del vivaismo tradizionale e delle multinazionali che producono gli antiparassitari”. Gli chiedo infatti se per queste ricerche ha a disposizione dei fondi e lui mi indica la tasca, per dire, zero contributi. Succede anche all’università di Udine che per progetti simili ha chiesto l’appoggio di Rauscedo.

Ma dovevamo parlare del produttore di vino. La Ploner è come ti aspetti che sia una piccola azienda altoatesina: razionale, bella esteticamente e funzionale alla produzione. Tutt’intorno le vigne, soprattutto di Pinot Nero: 172 cloni diversi, in pratica la più grande collezione esistente in Italia. Legno grande in cantina, con le botti ovoidali di Stockinger che, dice Tutzer, hanno un solo difetto, sono troppo care. “Però se vai in quelle foreste – spiega il produttore – capisci il perché : il legno sta a maturare all’aperto per sei anni e te lo consegnano con la bolla di invecchiamento”. Organizza visite in cantina per i turisti della zona: “dalle 16 alle 18, di modo che possano ripartire alle 18.30 ed essere puntuali per la cena alle 19 in albergo”. E’ Italia, ma anche un pochino no. Ecco i vini assaggiati.

Norder 2012. Assemblaggio in botte grande di Riesling, Pinot Bianco e Sauvignon, dopo essere stati vinificati separatamente. Naso profumatissimo di miele di acacia, tiglio, gelsomino. In bocca bouquet addirittura eccessivo che richiede un tempo in bottiglia più lungo per armonizzare gli aromi primari. Il Pinot Bianco si avverte come base importante.

Sauvignon 2012. Un Sauvignon che non sa di verde, che non calca su sentori acerbi. Anzi, sa di limone maturo e mandarino; in bocca è piacevolmente grasso e minerale, ha un finale molto lungo e canforato.

Sauvignon Exclusiv 2012. Dalla pigiatura fino a qualche giorno prima dell’imbottigliamento, il vino sosta sulle bucce in botti di acacia. Ne viene fuori una selezione davvero bella, con un legno meravigliosamente dosato, un naso ricco ma bilanciato con l’acidità e la mineralità. Bocca altrettanto armonica che gioca tra la grassezza e il citrico. Finale di nocciola un po’ verde, e di nuovo canfora.

Riesling 2012. Qui solo acciaio. Piccoli fiori bianchi al naso e in bocca, finale di erbe aromatiche che lo fa assomigliare molto a un bianco mediterraneo. Freschissimo e verticale, penalizzato da una certa assenza di corpo al centro bocca.

Pinot Nero 2012. Dicevamo 172 cloni diversi, alcuni provenienti anche dall’Etna, zona Solicchiata. Qui c’è ancora del lavoro da fare, per ammissione dello stesso produttore. Oggi il vino è fresco e profumato, naso di fragola e viola; in bocca spezie e leggera tostatura; patisce l’alcol che penalizza la finezza. Beverino, ma manca di complessità.

I prezzi, in cantina, variano tra i 10,50 euro del Sauvignon e i 16 del Sauvignon Exclusiv. Il Pinot Nero è sui 13,50. Plonerhof è a Marlengo, via S. Maddalena Sotto, 29 – 39100 Bolzano. Tel: 0471 975559

3 Commenti

avatar

Andrea Pagliantini

circa 10 anni fa - Link

A tal proposito mi viene in mente una famosa citazione di Luigi Einaudi riguardo alla molla che spinge un produttore (imprenditore un ce la fo a dirlo) e lo anima nel suo intento. Mi pare calzante per la storia di Erhard Tutzer. “…migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi.”

Rispondi
avatar

Patrick Uccelli

circa 10 anni fa - Link

"...oltre il biologico e il biodinamico" Questa associazione tra le varietà PIWI (www.piwi-international.org) e il metodo di cultura (biologica-organica e/o biologico-dinamica) mi lascia alquanto perplesso. È un associazione di termini a mio parere assolutamente incongruente. Mi dispiace! Il resto del racconto invece è stimolante ed interessante.

Rispondi
avatar

Roberto Stucchi

circa 10 anni fa - Link

Anche io ho sentito la stessa perplessità sull'espressione "oltre il biologico...." Riduce il Bio al fatto di non usare prodotti di sintesi e meno rame e zolfo. Queste sono cose importanti ma molto parziali. Studio e pratico tecniche Bio dagli anni 80 e trovo che gli aspetti fondamentali sono quelli rivolti alla salute del terreno e del suo ecosistema portato dagli inerbimenti spontanei o guidati e dall'uso di compost per reinoculare il terreno con microorganismi sani. Poi l'aumento della biodiversità portata dall'uso di selezioni massali e non clonali, e dall'attenzione alle altre specie vegetali (comunemente chiamate erbacce o infestanti) che per un agricoltore Bio dovrebbero essere viste come alleati. La ricerca di varietà resistenti è positiva ed utile ma facciamo più attenzione nel linguaggio.

Rispondi

Commenta

Rispondi a Roberto Stucchi or Cancella Risposta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.