Metti una cena a sera #2. (Vitigni) Proletari di tutti il mondo, unitevi!

di Emanuele Giannone

Mercoledì. Compagni avanti, il gran partito non vale più di una partouze. Basta coi movimenti operai e gli intellettuali organici: la stella Michelin tira più di quella rossa e al confronto con Ikarus la Potëmkin è un ferrovecchio. Or non è guari abbiamo ascoltato e commentato gli allegri grooves eno-techno del Lìder Massimo (d’Alema), novello vinificatore sebbene già noto per aver passato gli ultimi vent’anni a tagliare, decolorare, dealcolizzare e rotomacerare i Rossi di casa sua. Ora si è risolto a sbarazzarsi dei retaggi ideologici anche nel suo passatempo georgico: via la solforosa, via l’autoctono.

La solforosa è notoriamente un falso problema. Faccia come più gli piace, oppure come decreta l’Uomo del Monte: se questi ha detto sì, così sia. Tuttavia l’orgasmo riformista ha condotto il Lìder a liquidare gli autoctoni come fossero dei Natta, Garavini o Cossutta qualsiasi, nonché a tesserare in Umbria per il partito-partouze i nemici di ieri, i veri reazionari: i nazionalisti francesi. Questo, francamente, non è tollerabile. Così ho deciso di aderire, insieme a compagne e compagni adirati, al Collettivo Autonomo di Degustazione in Difesa degli Autoctoni. E tra questi, auspice e ospitante un cuoco, abbiamo scelto i negletti e i minori, li abbiamo riuniti, federati e restituiti a dignità di classe. Una Rifondazione. Ma la nostra falce e il nostro martello saran l’Albana e il Susumaniello.

Gli Autoctoni Minori. 12 vini scelti liberamente dai partecipanti e proposti in degustazione alla cieca mercoledì 8 maggio, presso il Salotto Culinario di Dino de Bellis a Roma. 

Vermentino di Sardegna Spumante Metodo Classico AD49 Sardus Pater. Interessante per l’amalgama di compostezza e stratificazione. Fiori gialli (ginestra, camomilla), lentisco, bosso, mirabella, gelato di pera, fico d’india. Dopo qualche minuto erompono note di lievito, iodio e alghe. Naso di spessore, bocca spiazzante per fresca, fragrante immediatezza: regolare, misurata, ben condotta nella progressione gustativa dalla dote acidica di timbro basso, agrumata e dulcinea, e soprattutto da quella salina.

Riviera Ligure di Ponente Pigato 2011 Bio Vio. Grande profondità minerale, salgemma, iodio, idrocarburi, pietra focaia; quindi gemma di pino, timo, fave, mollusco e più in là origano, lime, genepy, pera, menta. Al palato presenta salinità e freschezza diffuse e infiltranti, i due vettori di una dinamica gustativa intensa per dovizia di tracce, continua per slancio, suggestiva anche in fase inerziale, quando gli aromi convergono su una lunga scia matura e amaricante (chinotto, zenzero e cedro canditi).

VdT Bianco Blaterle 2010 Nusserhof. All’olfatto si concede con grazia, è delicato ma non diafano: gelso bianco, sambuco, malva, nespola, più leggere le note di magnolia, germogli (erba medica), albedo di cedro e karkadè. La stessa delicatezza è riflessa al palato, intessuto di riflessi floreali bianchi e rosa (ciclamino), pastiglia alla verbena, melone bianco e pesca bianca; fine, aperto e coinvolgente per la proporzione che esprime tra i suoi molti dettagli, i piccoli plessi e i piccoli spigoli.

Ischia Forastera Euposia 2010 Casa d’Ambra. Esordio in dolcezza (pasticceria, miele, idromele). A far da contraltare il frutto fresco (pesca, albicocca), le screziature di rosmarino, anice, vetiver, canfora e soprattutto arancia. La bocca è piana, abbastanza lenta nello sviluppo, il vino nel complesso piuttosto rônde ma rivendica il suo titolo sfoderando il timbro isolano e una serie di nitidi ricordi marini, salgemma e alghe su tutti. Finale leggermente ammandorlato e in crescendo per la nota calorica.

VdT Bianco Harmoge 2007 Prima Terra. Vino d’assemblaggio. Il vermentino proviene dai terreni limosi e argillosi del fondovalle della Magra; bosco e albarola da quelli scistosi e sabbiosi delle Cinque Terre. L’esito è splendido, lontano da qualsiasi idea di giustapposizione. Naso di straordinaria complessità con note di fieno, alghe, iodio, mitili, cappero, fieno greco, lukum, fiori gialli e frutta tropicale candita. Un tanto che non diventa mai troppo. Bocca pulsante: il palato è subito trapunto dal sale che introduce una grande varietà e profondità minerale, l’acidità è un riflesso che assicura slancio e tensione impedendo che calore e corpo – quest’ultimo polposo, adorno di belle tracce di macerazione – si facciano soverchianti. Frutta gialla matura, oliva, origano, mandarino, miele, sale, ostrica e cardo descrivono una timida estrazione dallo spazio campionario dei gusti possibili.

Etna Bianco Sup. Pietramarina 2002 Benanti. Carricante dai 950 mslm. di Contrada Caselle. L’acacia vera e poi quella falsa (la robinia), la zagara e il gelsomino, il cedro e la pera williams ma sono essenza lieve, eterea; pochi tratti e tenui, al di sotto dei quali resiste un corpo immobile, pietroso e ialino. Poco naso, quindi, ma fine. Bocca di grande dirittura, precisa, essenziale nelle impressione iniziali di mare e pietra, sale e marmo, praticamente inscalfita da undici anni di riflessione. Ancora in cerca di una soluzione, che si immagina felice.

Sicilia Bianco Grillo 2004 Barraco. La prima annata, e chi pensasse alla fortuna del debuttante meriterebbe d’esser coperto di contumelie. Con sincera modestia e superna ironia sicana, Nino Barraco si chiede a cosa veramente servano studio ed empiria se una prima uscita, quindi spontanea e arrischiata, insomma un saggio, dopo nove anni si doni così all’assaggio: diritta, tesa, energica, salata e sanamente sudista. Quasi le successive prove, più sicure e di più ferma scienza, con tutta la loro bontà non riuscissero ad attingere allo stesso spirito. Ecco, permettetemi: questo è un vino spirituale. Il suo élan vital aiuta anche me, agnostico, a ipotizzare che la migliore umanità, quella del caso e non del calcolo, muova realmente da un impulso superiore. Se i suoi frutti, oltretutto, evocano profumi di distillati, lo spirito è evocato a proposito. A parte i distillati, erbe in infusione, gelso bianco, gelatine di frutto, cera, sapone d’Aleppo, propoli, artemisia, toffee, crema catalana, Chartreux verde.

Vigneti delle Dolomiti Schiava 1998 Pojer e Sandri. Prima la storia, così come la raccontano gli attori: “In un mare di schiava, coltivata a Faedo e venduta agli Alto-atesini per produrre il ‘Lago di Caldaro’, abbiamo puntato su tre vini quasi rivoluzionari per il momento: la Schiava e il Vin dei Molini vinificati in rosato… freschi, fragranti e profumati a bassa gradazione… “. Quindici anni, l’acidità si è conservata nella sua forma meno mordace ma serve ancora a dar misura e ritmo alla progressione gustativa. Lo svolgimento degli aromi è scandito in nettezza e definizione: fragolina di bosco, gelatine di frutta, mela essiccata, erbe alpine e un finale di sale e tostature dolci, nocciola e anacardo. Su tutto la mirabile grana dei tannini: piccoli e piccanti. Prima di tutto questo un naso levigato ed essenziale, vaghe spezie, frutti rossi e noce.

Vigneti delle Dolomiti Granato 2001 Foradori. Tre anni dopo, stessa denominazione e un comune sentire: il tempo, assottigliandolo, lo ha acuito. L’attacco genera dubbi sulla tenuta della bottiglia: dopo tredici anni in apnea e lo choc del primo respiro la lentezza nel distendersi è giustificata. Solo dopo un’ora il vino renderà esplicite la sua pulizia e l’articolazione di trama. Il frutto rosso e scuro (ciliegia e mora soprattutto) in più forme, composte, bonbon e distillato; poi spiccano ferro, terra umida, viola, erbe, radici, caffè. Bocca piena e serrata, prodiga di rimandi ferrosi e a terra, muschio, viola e pietra, di grande profondità e perfetta articolazione. Lunghissima persistenza sapida e amaricante, coda che torna in tono esclamativo sulla mora e controcanto di tostature e spezie dolci perfettamente infuse.

Venezia Giulia Schioppettino 2004 Bressan. Le vecchie ceramiche, i vasi, le ampolle; barattoli e torchi, flaconi e mortai. È la bottega dello speziale, poi del farmacista, del suo leggendario meuble de métier stipato di spezie, erbe medicinali, essenze e profumi. Qui, un giorno, fece irruzione un geniaccio silvano, il clurichaun Fulvio Bressan, sconvolse l’ordine e prese a elaborare le sue composizioni. La dote aromatica di questo Schioppettino è saliente e variegata ma assolutamente sintonica. Pepe nero e verde, chiodo di garofano, china, cumino, semi di finocchio, lavanda e polvere di cacao, oltre a mora, ribes, rosmarino, tahina. Molto invitante. In bocca dispiega senza preliminari presenza e tensione tattile. Fendente e piccante fin dall’attacco, si svolge per strati perfusi di frutto scuro e spezie. Energia che pulsa, tocca e avvolge.

Etna Rosso Prephylloxera (La Vigna di Don Peppino) 2006 Tenuta delle Terre Nere. Per una volta, ma non a caso, un’eccezione comoda: la descrizione veritiera di questo vino è data, cosa assai rara, dalla presentazione che ne fa il produttore: “A Calderara Sottana (…) in un vigneto di circa quattro ettari ci sono due particelle che sono sopravvissute alla fillossera. Hanno dunque circa 130-140 anni, e sono franche di piede. Nel 2006 decisi di vinificarne le uve separatamente. L’annata era splendida, quasi monumentale. Queste uve ci regalarono un vino di quasi sopranaturale finezza. Nonostante le vigne attigue produssero un vino bellissimo e di carattere molto simile, le vigne prefillosseriche sembravano pascersi di terreni celestiali: la quintessenza di Calderara. È più timido e vuole più pazienza. Raramente consiglio di decantare un vino, ma in questo caso faccio un’eccezione. La sua eleganza è sempre misurata, la sua autorità gentile, la sua raffinatezza aggraziata… “. Carne, marasca e fondo bruno all’esordio (senza decantazione), si svolge poi in ciliegia rossa, origano, arancia amara, genziana e anguria. Bocca dritta, affilata di sale e tannino; grande presenza minerale, andamento austero e misurato. Chiusura di grande pulizia, cesellata di dettagli: frutti rossi, ferro e fumo.

Cirò Classico Superiore 2010 ’A Vita. È grande l’impressione che infonde in noi un bimbo quando si porta con serietà. Qui abbiamo di fronte un poco più che infante e molto serio, quindi non grave: maturità dell’uomo – scriveva Nietzsche – equivale ad aver ritrovata la serietà che da bambini si metteva nei giuochi. Immagino il Cirò di Francesco De Franco egualmente serio quando lo riassaggerò tra dieci anni: maturo e giovanissimo al contempo. Adesso immaginiamo molta ciliegia, molte erbe e fiori di campo, roccia scura e asfalto bagnati, pigna e rovo e finalmente molto mare. Immaginiamo un modo di renderli conciso e rigoroso. Assaggiamo. Serio, succinto per il momentaneo sopravvento dei tannini, che son proprio la parte più seria del gioco. La cifra dell’acidità è la discrezione: fruttata (sorba, ribes), sottesa e misurata. Più che descrittori a lampeggiare nella memoria è una parola: autentico. E con lei  un’altra reminiscenza. Nell’uomo autentico si nasconde un bambino: che vuole giocare.1

Sagrantino di Montefalco 2007 Fattoria Colsanto. È tutto merito di uno che scrive su Intravino (e citando il merito ho già detto che è altro da me). La bottiglia era sua. Dopo varie esperienze di profanazione d’uve e tecniche, per me il nome Sagrantino era come lucus a non lucendo: una classica, varroniana etimologia dall’opposto, quindi richiamante il sacro per significare piuttosto il profano – anzi, il profanato. Otto maggio, arriva questa bottiglia in burqa. Non so cosa accada nel percorso dal collo al calice, ma qui si materializza Venere in babydoll. Bacche nere e amarena rotonde, succose, e poi tabasco, menta, timo, un curioso ricordo di kriek, un’effusione mentolata. In bocca: venusto, onusto senza oneri. Il frutto è carnoso, la spezia piccante, le note balsamiche non invadenti e il tannino lo riveste alla guisa di un nude look, trine e satin. Via il burqa, sbigottimento generale. A ulteriore ammissione di colpa e per mia espiazione verso gli accoliti del vino di Montefalco: con buona pace di Varrone, le etimologiae e contrariis si rivelano in massima parte come emerite corbellerie. Così forse potranno rivelarsi molte mie contrarietà sul Sagrantino.

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

6 Commenti

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Malticidio

circa 11 anni fa - Link

sono tutti figli minori di Bacco, ma alcuni sono meno tovarish di Maximo.

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Tommaso Farina

circa 11 anni fa - Link

Pigato autoctono MINORE? :O

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Eleutherius Grootjans

circa 11 anni fa - Link

Giusta osservazione Tommaso. Minori non va letto - viste le tue note passioni posso permettermi l'uso di un termine alloctono - come minderwertig. Minori, piuttosto, per diffusione rispetto ai "maggiori" trebbiano, sangiovese, fiano, aglianico...

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Tommaso Farina

circa 11 anni fa - Link

Ah beh, senz'altro. E grazie per l'omaggio.

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Sir Panzy

circa 11 anni fa - Link

Gran bel naso! Complimenti!!

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manilo

circa 11 anni fa - Link

Ora ho capito l'uso del quadernino (:- Forse questa è stata una fra le migliori nostre degustazioni. E schiava sia, chi l'avrebbe detto?

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