Lezioni di marketing: gli Australiani sì che sanno come vendere il vino ai cinesi

di Pietro Stara

A Genova pare che il moto perpetuo venga descritto, in maniera appropriata, attraverso la raffigurazione di un genovese che rincorre uno scozzese che gli deve dei soldi. Ho sempre pensato che i genovesi fossero dei grandi commercianti, ma poi ho letto degli australiani e mi sono ricreduto. Dr. Armando Maria Corsi, Dr. Justin Cohen, Prof. Larry Lockshin dell’Ehrenberg-Bass Institute for Marketing Science – Università degli sudi del South Australia si sono messi di buzzo buono a studiare i descrittori utilizzati in Cina per raccontare i vini. Il pensiero, alquanto semplice, soddisfa l’equazione secondo cui se si vuole vendere un prodotto in un determinato posto, è necessario fare in modo che coloro che lo comprano siano in grado di rappresentarselo mentalmente. Fin qui sembra tutto semplice, anche se non banale: un’operazione di marketing in pieno stile anglosassone d’antan. Ma, come avrete meravigliosamente intuito, esiste anche la possibilità di tarare e di variare la costruzione dei propri prodotti sulle base delle preferenze sensoriali individuate dalle predilezioni dei consumatori.

Niente di nuovo neppure qui: sappiamo come, a casa nostra, una serie di vini, anche di rango, siano stati ridefiniti per un mercato estero che aveva delle variabili libidinose rotonde e alla vaniglia. Altri, ancora, avevano già tutte le prerogative necessarie.

Ma torniamo alla Cina: i tre emeriti ricercatori organizzano 12 focus group, nel marzo del 2013, in tre città campione (di bevute): Shanghai, Chengdu e Guangzhou. 4 x 1h per gruppo in ognuna delle tre città. 24 uomini e 24 donne in totale; 24 sotto i trenta e 24 sopra:

  1. Gruppo femminile di età compresa tra i 25 e i 30 anni
  2. Gruppo femminile di età compresa tra i 31 e i 50 anni
  3. Gruppo maschile di età compresa tra i 25 e i 30 anni
  4. Gruppo maschile di età compresa tra i 31 e i 50 anni

Ai tester venivano richiesti i seguenti requisiti:

  1. Acquisto e consumo di vini d’importazione da uno a sei mesi precedenti all’intervista;
  2. Consumo di vini d’importazione: almeno tre volte negli ultimi sei mesi;
  3. Spesa media (non si specifica il tempo ma si presume che sia compreso nei sei mesi) tra i 150 e i 400 Renminbi. Dai 20 ai 55 euro attuali (valore sicuramente più alto nel 2013)
  4. Non comperare vino in prevalenza per regali;
  5. Essere interessati ad assaggiare vini australiani;
  6. Essere interessati a provare espressioni nuove e differenti di vino (boh!)

Cosa gli hanno fatto assaggiare:

Quali descrittori sono venuti fuori?

Per i vini spumanti.

Al top assoluto, con ben il 67% di preferenze, il Pomelo, pummelo o pampaleone, che appartiene al genere dei Citrus, nella famiglia delle Rutaceae. Al secondo posto il Kaffir lime,dall’aroma pungente ed erbaceo con il 52% di utilizzo. Al 23% le Jasmine tea leaves, ovvero le foglie del tè al gelsomino. A pari merito, con un bel 17%, Jackfruit e Guava (quest’ultimo appartenente alla famiglia delle mirtacee). Lemongrass, ovvero citronella, al 15%.

Chiudono Cantaloupe (13%), melone di Cantalupo, Rambutan (simile al litchi, ha una buccia ricoperta di spessa peluria rossa) e Star fruit (Carambola) al 10%. In coda Dragon fruit (Hylocereus undatus) con l’8%

Per i vini bianchi.

Kaffir lime al primo posto con 44% di preferenze, seguito dal Pomelo al 31%. Poi Lemongrass, Rambutan, Guava, Star Fruit tutti sotto al 20%. Compare per la prima volta il Ginkgo nut. E si chiude con il Jackfruit, il Melone Giallo e le Foglie del tè al gelsomino. Insomma come per i vini spumanti, con qualche lieve differenza.

Per i vini rossi.

Naturalmente frutti rossi, con prevalenza di bacche, e qualche altra piccola variante: Yangmei, detta anche fragola cinese, con il 42%. A ridosso Dried Chinese hawthorn, ovvero le Bacche di biancospino essiccate con il 33%. Poi il Dattero cinese essiccato, che corrisponde al nostrano Giuggiolo, che tiene con il 31%. Quindi le fantastiche bacche di Gogji, sia nella versione fresca (27%), che essiccata (23%). A seguire Foglie di tè nero cinese (23%), Chiodi di garofano (21%), Datteri cinesi freschi (19%) e Funghi cinesi essiccati (8%). Chiude in bellezza il Caco (6%).

Per i vini da dessert.

Se pensate che i descrittori varino molto rispetto a quelli dei vini bianchi e spumanti vi sbagliate di grosso. Sono gli stessi capovolti anche, ma non solo, sulla base della dolcezza intrinseca al frutto: in alto, quindi, Jackfruit (Artocarpus heterophyllus Lam) e Longan, ovvero il mitico “occhio di drago”, che si appaiano al 38%. Pompelmo al terzo (29%), poi Cantaloupe (23%), Kaffir lime (21%), il Mango (21%) come new entry e Star Fruit (19%). La Pera asiatica al terz’ultimo posto (15%). A chiudere Dragon Fruit (15%) e Lemongrass (13%).

In generale i termini generici più utilizzati per raccontare i vini sono: morbido (平滑), fruttato (果香), dolce (), succoso / maturo (), lungo retrogusto (回味)

Da ciò si capisce anche che sono pressoché inutilizzati i riferimenti al 90% di ciò che adoperiamo in occidente e che non leggono Intravino.

Concludo ora come ho iniziato, ovvero con un adagio genovese molto saggio, che è stato alla base di millenni di proficui commerci e della filosofia che ha ispirato Kung Fu Panda:

Se o càn o se gràtta e bàlle, a lêvre a scàppa inta vàlle
(Se il cane si gratta le palle, la lepre scappa nella valle)

Scarica la ricerca integrale qui

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

9 Commenti

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Nelle Nuvole

circa 9 anni fa - Link

Bravo Pietro, ci hai tirato fuori dalle guazze dell'impantanamento gossipparo di fine estate. In effetti quanto sopra fa riflettere e potrebbe servire a riscrivere le analisi sensoriali nelle schede tecniche dei vini destinati all'esportazione in Cina. Ringraziamo dunque i ricercatori australiani per aver fatto un lavoro che tornerà utile anche a noi. Detto questo, mi sento di affermare serenamente che per quanto riguarda il risultato sulle vendite a medio termine, tutto ciò è inutile. 24 + 24 mi sembra un numero di persone molto risicato. Il loro budget e la media di consumo dichiarata non ne fa dei clienti interessanti per chi, come noi ed altri produttori-lettori intravinosi, ha una produzione di vino di media-alta fascia. Un indagine interessante e costruttiva andrebbe fatta pescando fruitori abituali dei numerosi centri commerciali di lusso presenti proprio nelle tre città indicate. Uomini e donne in grado di spendere molto più di 400 RB a botta, per una camicia di Armani o una borsa di Prada. Sono costoro i clienti potenziali da fidelizzare, anche se non ci capiscono un beato nulla di vino.

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Pietro Stara

circa 9 anni fa - Link

Cara Nelle, grazie per la replica. La tua domanda/affermazione è fondamentale: quanto può definirsi rappresentativo il campione scelto? E così tocca buttarci nei criteri di elezione e nei rischi ad essa connessi. Nella statistica quantitativa un campionamento si definisce come “come un procedimento attraverso il quale si estrae, da un insieme di unità (popolazione) costituenti l’oggetto di studio, un numero ridotto di casi (campione) scelti con criteri tali da consentire la generalizzazione all'intera popolazione dei risultati ottenuti studiando il campione. La rilevazione campionaria presenta i vantaggi per quanto riguarda il costo di rilevazione, i tempi di raccolta dati ed elaborazione, l’organizzazione, l’approfondimento e l’accuratezza. La tecnica del campionamento presenta tuttavia anche degli svantaggi. Infatti, se l’indagine totale fornisce il valore esatto del parametro che si vuole conoscere, l’indagine campionaria ne fornisce solo una stima, cioè un valore approssimato. Ciò significa che il valore in questione non è certo, ma solo probabile, e inoltre questa probabilità può variare entro un certo intervallo (detto intervallo di fiducia). La stima del campione sarà quindi sempre affetta da un errore, che si chiama errore di campionamento.” Un errore, secondo procedure rigidamente casuali, che si può calcolare. Immagino che gli studiosi australiani abbiano ragionato un bel po' sui criteri di campionamento: età, città, consumi medi e così via. Se guardi bene, ad esempio, escludono dall'indagine la categoria degli over cinquanta: da noi sarebbe impossibile, perché sono la memoria vivente di un certo modo di bere, di degustare e conoscere il vino. Nonché di acquistarlo. Da loro no: hanno vissuto un'epoca, e su di essa si sono formati, in cui il vino non era presente né al consumo individuale né a quello collettivo. E' sostanzialmente estraneo alla loro cultura. Così pure i giovanissimi, ma in questo caso penso siano più simili ai nostri, potrebbero essere oggetto di un'indagine separata. E poi l'altra domanda: quali (prezzi, tipologie, quantità...) vini sono intenzionati a vendere in Cina? Che si collega direttamente alla tua ultima osservazione che riguarda una fascia di popolazione, mediamente ricca, in grado di potersi permettere alti e altri consumi di vino. Qui le variabili che entrano in gioco sono diverse: gusti, mode, status, costi… Indici, indicatori e variabili che non necessariamente attengono al mondo del vino, ma che lo usano come veicolo di rappresentatività sociale.

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CIP

circa 9 anni fa - Link

Nelle Nuvole, io non sono molto d'accordo con la tua conclusione. A me sembra di capire che non si tratti di fidelizzare ma banalmente e terra terra di vendere. La' fuori, in Cina intendo, nonostante la crisi che ha iniziato a mordere (che sta arrivando prima del previsto per gli addetti ai lavori e che ha lasciato spiazzati per le contromisure prese dal governo cinese, ma che era ovvio sarebbe arrivata e pesante), ci sono una valanga di consumatori che hanno iniziato a bere vino come stile di vita occidentale importato, e semplicemente continueranno se il mercato sapra' incontrare il giusto prezzo e il loro gusto. Non sto parlando di un vino che il nostro gusto definisce di qualita' - e con 'nostro' intendo dei frequentatori di questo e altri siti, non del consumatore italiano o occidentale in generale. Il mercato va a valore o a volume, e quello delle nicchie e' un fenomeno ancora marginale (anche se rilevante). La azienda per cui lavori fa bei prodotti indirizzati ad un segmento che mi sembra evidente non sia necessariamente il segmento a cui si riferisce questo studio, il quale infatti ha delle specifiche ben chiare sul tipo di consumatore prefissato.

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Wine Roland

circa 9 anni fa - Link

Direi che l'Australia le sta tentando tutte per vendere il vino che le è rimasto sul groppone da qualche anno in qua

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

A volte le tipiche metodiche universitarie basate anche sull'analisi di piccoli gruppi sono scambiate dai media o dal mondo dello spin per sondaggi, ma si tratta di due cose diverse. Per avere un dato anche minimamente utilizzabile dal punto di vista commerciale la Nielsen (o qualunque altro istituto simile) userebbe un campione enormemente più ampio e scelto con criteri precisi, mentre una Università opera in altri modi e con altre finalità. Pur con il massimo rispetto per i tre ricercatori citati, direi questa ricerca non ha alcuna utilità per produttori vinicoli di qualunque nazione. Per noi è pura aria fritta, inutile parlarne.

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Pietro Stara

circa 9 anni fa - Link

Buon giorno, quello che dice è vero: il focus group, così come le interviste in genere, utilizzate dai ricercatori australiani, rientrano in quella che in sociologia viene definita come ricerca qualitativa. Il campionamento differisce notevolmente da quello dei grandi numeri (quantitativo) perché ha come obiettivo la riduzione dell’estensione del dominio osservato. Si tratta di un’osservazione congetturale, indiziaria per lo più, ma che può fornire dati molto rilevanti: “Tanto la teoria dell’argomentazione quanto la teoria della probabilità offrono una soluzione convincente all’antitesi fra ricerca di una verità assoluta e rinuncia a ogni verità, lo statuto epistemico degli asserti prodotti sarà in un caso probabile, nell’altro verosimile, collocandosi, ciascuno a proprio modo all’interno di quel continuum ideale i cui estremi definiscono i poli dell’antitesi. Ciascuna cornice teorica dà il meglio di sé in uno specifico contesto, per la ricerca qualitativa a dare il meglio di sé è indubbiamente la teoria dell’argomentazione.” (Cardano) Infine, ricordo qui che molto spesso i nostri ragionamenti procedono per induzione: partiamo dall’esperienza, cioè dall’osservazione di casi particolari, per poi estrarre una regola generale. I dati quantitativi, di massa, contengo al loro interno dati qualitativi difficilmente decifrabili in termini numerici. Per concludere ritengo che occorra capire come quello che lei ha definito “aria fritta” fornisca variabili e indicatori che altri tipi di ricerca campionaria non darebbero (anche per economie di tempo) e come questi dati potrebbero essere proficuamente incrociati con dei dati numerici di maggiore consistenza, ovvero quantitativi.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 9 anni fa - Link

Beh, giustamente il mio uso del termine "aria fritta" va argomentato meglio. Trovo sempre interessante la pratica dei focus groups, che conosco bene. Però hanno un senso, come mi pare alludere lei, quando servono da "copertura" per l'intuizione non altrimenti dimostrabile (per mancanza di fondi per la ricerca o per mille altri motivi) di un grande esperto che parla della sua materia. Qui non mi pare il caso perché, anche con la massima apertura mentale, non mi pare che i tre estensori della ricerca abbiano requisiti accademici o di lavoro tali da ritenere altamente attendibili le loro intuizioni. Per cui attribuisco modestissima rilevanza alle loro argomentazioni. Da qui la mia definizione di "aria fritta". Anche perché non corrisponde affatto alle "sensazioni" che sento da veri esperti di quel mercato.

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Luigi

circa 9 anni fa - Link

Con tutto il rispetto per la statistica l'origine del successo australiano in Cina e' da ricercarsi altrove: http://www.theguardian.com/australia-news/2014/nov/17/china-drops-barriers-on-australian-dairy-wine-and-beef-in-free-trade-deal I Cinesi ricchi non comprano vini australiani ma Francesi e forse qualche vino italiano. La statistica in quanto a budget e' fedele ai prezzi della maggior parte dei vini australiani in Cina (70-400 CNY per bottiglia) ed e' rivolta alla classe media. Secondo me la domanda come stiamo approcciando il mercato cinese noi Italiani? Governo incluso? http://www.winemeridian.com/news_it/cina_un_mercato_controverso_anche_nei_numeri_749.html. http://www.winemeridian.com/news_it/in_cina_il_prosecco_sale_in_cattedra__736.html

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Denis

circa 9 anni fa - Link

@NelleNuvole: lo scopo della ricerca è solo indirettamente la vendita e la fidelizzazione. E per questa (interessantissima) indagine, secondo me non era per nulla necessario un campione ampio o particolarmente danaroso. Sarebbe molto interessante ripetere lo stesso esperimento, con gli stessi vini, ma con platea occidentale, per trarne un dizionario occidente/oriente sui descrittori dei vini, allo scopo di vendere lo stesso vino in Italia, con in etichetta "sentore di pompelmo" e in Cina "sentore di pomelo".

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