La mia prima volta. Ovvero: l’etichetta che m’ha fatto diventare quello che sono/6

di Adriano Aiello

Gli anni Novanta esalavano gli ultimi invasivi sospiri, erano i “duri” anni dell’università, gli anni della personale e avvincente scoperta del sesso femminile (l’istituto tecnico andrebbe abolito, può segnarti per sempre); ma anche gli anni della cinefilia ostentata. Gli anni delle nottate nella case di fuori sede meridionali ricchi di soluzioni culinarie notturne.

Amare il vino era difficile. La fascinazione c’era ma il contesto lo cannibalizzava. L’orizzonte si riempiva di birraccia e cocktail spaccafegato; in casa giravano bottiglie istituzionali di Chianti, qualche Montepulciano e poco altro, mentre fuori, alle grigliate e ai compleanni si stappavano vinoni tutto legno e struttura in bicchieri di carta. Se si andava in fraschetta erano dolori. Ma dolori veri: momenti alcolici così inaccettabili che per un lustro abbondante mi convinsi di non poter più bere vino bianco. Ma era giusto così.

A quei tempi cuore e autolesionismo mi spingevano in una relazione a distanza siderale in quel di Aosta (a ripensarci ora che ero circondato da vini che ho imparato ad amare…) e usualmente ci si salutava con una trasferta a Torino, prima del maledetto espresso delle 23.20. In un impeto di entusiasmo, una sera scalciai il cancro proletario ambendo a una cena che potesse fregiarsi di quel nome. Affidandomi all’intuito imposi un ristorante fuori dalle nostri canoniche mete economiche. L’impatto con l’immensa carta dei vini fu stordente, tanto che il sommelier mi venne in soccorso con vari stimoli fino a mollare la presa e a esercitare il migliore dei propositi per il contesto. “Abbiamo dell’ottimo sfuso: un dolcetto, un barbera e un sangiovese”

Qualunque piemontese avrebbe preso il primo o il secondo, io ovviamente scelsi il terzo. Vai a capire se fosse davvero buono come lo ricordo, l’unica certezza era che per la prima volta scoprii la freschezza nel vino. Nonostante le origini laziali non ricordo, infatti, prima di quel momento, un vino con una beva così contagiosa. Non riuscivo a smettere. Lei si limitò a un bicchiere io a tutto il resto – che è un po’ la mia storia alcolica con le donne – e così andò anche per la seconda bottiglia.

Ovviamente persi il treno, tra i mugugni della consorte che fu costretta a scomodare una sua amica torinese per darci asilo. Mi fu anche negato il sesso, ma ci si poteva stare. Una nuova ossessione bussava alla porta.

[La prima puntata, la secondala terzala quarta e la quinta].

1 Commento

Commenta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.