Intervista a Marco Simonit. Quando la potatura della vite diventa Made In Italy da esportazione

di Elena Di Luigi

Quando Marco Simonit e il suo gruppo andarono per la prima volta in Francia a insegnare un nuovo metodo non invasivo di potatura, qualcuno obiettò: «Pourquoi les Italianes?». E la risposta fu pragmatica più che verbale: perché la conoscenza non ha confini e perché l’esperienza ha senso solo se condivisa.

Il primo ricordo che hai di te tra le braccia di un vigneto? 
I primi ricordi sono con mio nonno. Dopo essere rimasto orfano di padre ci siamo trasferiti dai nonni contadini che avevano una stalla, coltivavano i cereali, la frutta e lì c’era anche un pò di vigna. Ricordo che mi portava nella vigna, io guidavo il trattore e lui dietro con l’aratro. Comunque era una cosa che non mi piaceva perché sentivo che il mio posto era con gli animali, mi piacevano le vacche, i cavalli e tutto quello che era il mondo della stalla. In vigna non volevo mai andarci.

Cosa ami di più del tuo lavoro? 
Mi piacciono i viaggi, gli incontri con le persone, conoscere e imparare tutti i giorni da culture e posti diversi, da famiglie e tradizioni radicate nel tempo. Mi reputo molto fortunato perché viaggiando e lavorando in questi ambienti, sia in Italia che all’estero, senti la forza della cultura che si tramanda di generazione in generazione. La cosa che mi piace di più è poter crescere tutti i giorni.

Quali viticoltori del passato ti hanno ispirato?
Non ho avuto viticoltori che mi hanno ispirato ma piuttosto la fortuna di conoscere molti personaggi. Mi vengono in mente Josko Gravner, Mario Schioppetto, la famiglia Venica e tanti altri, anche giovani e dinamici. I primi passi li ho fatti con il Consorzio di Tutela Vini del Collio come assistente tecnico. In realtà erano i viticoltori che assistevano me perché non ne capivo nulla. Anche qui sono stato molto fortunato perché ho conosciuto un sacco di gente e mi sono avvicinato a quella che poi è diventata la mia vera passione, cioè la pianta della vite. L’amore per la pianta è arrivata come una folgorazione e da lì sono partiti tutti i progetti e le ricerche che oggi condivido con un gruppo di persone. Schiopetto e Gravner mi hanno messo nelle loro viti e lì ho fatto i primi passi.

Qual è il vitigno più difficile da colivare e perché?
Mi piacciono tutte le varietà autoctone. Il nebbiolo in Piemonte mi appassiona perché è selvatico, molto ancestrale, rustico, non facile da “domesticare” nel senso buono del termine. Ai vitigni di fama internazionale preferisco sempre gli autoctoni, che so, il negroamaro, la glera, proprio perché danno del filo da torcere, sono più liana delle altre varietà e mi appassionano per questa naturalità. Il mio obiettivo è cercare di preservare il loro spirito selvatico.

Quali vitigni indigeni dell’Italia potrebbero conquistare il consumatore estero?
Non avrei idea, è una domanda molto complessa perché dipende da tante cose: la potenzialità della varietà, da come viene trasformata, vinificata ma anche da come viene proposta sul mercato. Ci sono varietà che non hanno massa critica in termini numerici ma si conquistano delle nicchie favorevoli presso certi consumatori.  All’estero si è curiosi e per esempio varietà come i nebbioli e il prosecco sono già noti. Secondo me anche la ribolla friulana sta interessando perché piace la sua tipologia facile da bere; poi i negromari della Puglia, il sangiovese. Per me è difficile rispondere perchè ho delle sensazioni ma non sono dentro il mercato dei consumatori.

In quale parte del mondo è stato più facile portare le tue idee? 
In Francia. Lì l’Università di Bordeaux e l’Institut des Sciences de la vigne et du vin del Professor Denis Dubourdieu ci hanno dato l’opportunità di mettere in pratica le nostre idee. In Bordeaux le varietà del sauvignon blanc e del cabernet sauvignon rappresentano dei “cavalli”  di primo livello per i vini che producon  e quindi il deperimento della pianta è un problema serio. L’Università di Bordeaux si è interessata a quello che facevamo e ha voluto mettere in piedi anche una sperimentazione presso le vigne Inra (istituto nazionale francese di ricerca agronomica) per capire se con le nostre tecniche si potesse fare prevenzione. Poi anche gli Châteaux si sono avvicinati a noi e con umiltà ma anche pragmaticità hanno voluto investire tempo e denaro sulla formazione del personale. Certo, all’inizio sono stati riluttanti, volevano dei francesi al nostro posto, ma poi sul campo li abbiamo portati dalla nostra parte, adattandoci anche noi, cercando di capire, lavorando nella realtà, evolvendola ma senza stravolgerla. I francesi hanno risposto benissimo, in Italia è stata più dura, forse perché non avevamo ancora gli anni di esperienza.

Cosa temi di più per il futuro delle vigne? 
Credo che come in tutte le cose ci sarà un’evoluzione, forse anche uno spostamento o un adattamento dei territori. Penso che verranno vitati posti che oggi riteniamo inadatti anche in seguito a un diverso assetto climatico. È difficile fare delle previsioni. Mi auguro comunque che l’uomo sappia creare una cultura dei mestieri che possa da un lato pensare alla vitalità della pianta, alla sua durata e al suo benessere, e dall’altro offrire l’opportunità di professionalità, creando posti di lavoro per i giovani che vogliono lavorare in ambito agricolo e vitivinicolo. In Francia, per esempio, dopo sei mesi di scuola e sei di stage l’azienda ti offre un lavoro e così entri subito a far parte di una realtà di cui già conosci le dinamiche. Il futuro delle vigne è saper tramandare le cose. Questo è lo spirito con il quale abbiamo fondato la scuola di potatura, nata come una piccola provocazione di cui però c’è bisogno.

Al di là delle discussioni su biologico, biodinamico e sostenibilità, c’è bisogno anche di saper potare bene, guidare il trattore, saper piantare un vigneto altrimenti, ci ritroviamo a rinnovare le piante ogni 25-30 anni e a produrre vini che non esprimono la personalità del territorio. Per arrivare a vigneti di 50-60 anni c’è bisogno di seguire la vigna e quindi di preparare la gente che lo sappia fare.

Sulla base delle esperienze fatte in giro per il mondo in materia vitivinicola, nel 2014 l’Italia è alla pari, avanti o indietro rispetto agli altri paesi produttori?  
La mia impressione è che le aziende italiane più brave cioè quelle che riescono ad avere un riscontro anche commerciale all’estero non abbiano niente da invidiare agli stranieri. Un’altra cosa è la cultura che si traduce in una storia, che evolve nel tempo, che prende un’identità che è un valore che va oltre quello del brand, della famiglia e del singolo imprenditore. Quello che manca in Italia è una forte caratterizzazione che dia riconoscibilità ai nostri territori, sia da un punto di vista paesaggistico che tecnologico. All’estero tutto questo c’è, anche in paesi relativamente giovani come Napa Valley, Sud Africa o anche Australia. Se penso al mio Friuli io non vedo un’identità territoriale.

Dicono che il tuo chiodo fisso sia la ‘condivisione del sapere’, è così?
Io ci credo tantissimo. Le iniziative che abbiamo intrapreso, la scuola, i libri, i corsi li vogliamo condividere perché siamo convinti – io sono convinto – che sia l’unico modo per continuare a crescere e a imparare. Quando si condividono le idee si incontrano altre persone che a loro volta ti possono dare nuove idee.

Nel libro Manuale di potatura della vite: Guyot abbiamo messo tutto quello che sapevamo. Mi chiedevano “ma non hai paura che ti copino?”. Non è questo che temo ma la mancanza di confrontarmi con gli altri, perché è da questo confronto che si ottengono le informazioni che ci mancano. La penso così anche in altri aspetti della vita.

Se tu potessi scegliere di gestire le sorti di un vigneto del passato dove andresti?
In Priorato in Spagna a lavorare con le viti di garnacha che adoro, piante di non meno di 50 anni. Si tratta di una varietà che si arrampica sui pendii dove per arrivarci ci si deve aggrappare agli stessi tronchi o aiutarsi con gli spuntoni di roccia.

Da artigiano della vigna quale consideri il traguardo più importante raggiunto?
La condivisione del sapere.

12 Commenti

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ale

circa 10 anni fa - Link

"che so, il negroamaro, il prosecco, la glera per esempio," ma quindi esiste una varietà prosecco che è diversa dal glera o solo nella trascrizione si perde il parlato e quella virgola non significa "e"...? Dovrebbe trattarsi di errore di trascrizione, ad ogni modo verifichiamo. [ale]

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Samuele

circa 10 anni fa - Link

Molto interessante. A vedrlo lavorare ho spesso l'impressione che non abbia inventato nulla, soprattutto col cordone speronato, ma che abbiano ripreso insegnamenti contadini. Credo che in questo stia la loro forza, continuare a lavorare nel solco della tradizione.

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Dan

circa 10 anni fa - Link

Ho visto qualche suo video. Non ne sono entusiasta, bene sperimentare ma su varietà con internodo lungo o vigorose in 3-4 anni ci ritroviamo con dei cordoni in orizzontale che porano altri cordoni in verticale.

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Andrea Pagliantini

circa 10 anni fa - Link

Da profano del settore mi pare che stiano mettendo in atto ciò che i contadini fanno da sempre solo che loro lo dicono meglio.

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Stefano Cinelli Colombini

circa 10 anni fa - Link

E la bambina, vedendo passare sua maestà senza alcun vestito, si voltò verso la madre e le chiese; mamma, perché il re è nudo? Andersen docet.

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Alessandro Morichetti

circa 10 anni fa - Link

Io cazzeggiando su Facebook ho trovato un commento che risponde molto bene ad alcuni interventi: "Io lo seguo da un po'. Non è secondo me così automatico trovare persone che potano bene, e a quanto vedo oggi queste operazioni sono spesso effettuate da personale extracomunitario, che non ha nonni istruiti in merito. I vignaioli non sono sempre "generazionali" ma sempre più spesso nuovi anch'essi e quindi materiale umano per insegnare le basi ce n'è tanto. Magari non salendo così antipaticamente in cattedra, ma forse è invidia. C'è anche un altro punto e cioè che i vecchi impianti negli anni passati sono stati stravolti, e ora siamo in pieno riflusso e lui giustamente ri-insegna quello che è stato buttato. L'ultimo aspetto legato al precedente, e poi mi fermo con il pippone, è che le nuove mode (ad es. impianti fitti e bassi) trapiantate in Italia hanno fatto un certo numero di danni e diffuso anche malattie. Per tenere bassa una vite in Italia bisogna brutalizzarla con tagli severi. La sua lezione di base per come la vedo io è che per potare una vite bisogna prevedere e modellare anche la sua crescita geometrica, e non è una cosa così banale in fondo. Se poi mi spiegassero anche bene (cosa che non ho capito) come si fa a far germogliare sempre la gemma basale di uno sperone gliene sarei gratissimo."

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Andrea Pagliantini

circa 10 anni fa - Link

Io ne capisco sempre poco del tema, ma credo che i nuovi potatori non siano extra comunitari ma si chiamino pre-potatrici che sugli impianti disposti a pecora come il cordone speronato si adattano a meraviglia. I vecchi impianti credo anche che siano stati estirpati un po' per usura, un po' perchè pieni di mescele di uve, un po' perchè arrivavano contributi a pioggia per rifarle. Credo anche che si possa potare una vite a cordone come si possa stare in una catena di montaggio della FIAT, non credo sia difficile. Può darsi che per chi ci sta è solo palloso e c'è poca poesia e da raccontare.

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carolain cats

circa 10 anni fa - Link

io simonit ho avuto il piacere di conoscerlo in friuli, quasi 20 anni fa quando aveva i capelli neri. mi è sempre piaciuto il fatto che fosse una persona curiosa, e che chiedesse a me che ero una "bambina", le cose e i punti di vista. che poi abbia ripreso pratiche dei nonni secondo me va più che bene visto come sta diventando la viticoltura in questo periodo storico. vorrei però vederlo alle prese con una bellussera.... :)

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Stefano Cinelli Colombini

circa 10 anni fa - Link

Ma scusate, vogliamo parlare di cose serie? L'agronomia è la scienza più antica praticata dall'umanità, in migliaia di anni di ricerca ha prodotto tecniche e metodologie che sono tutte molto studiate e molto documentate. Potature comprese. Quando un anziano contadino pota, quasi certamente ha appreso il metodo da un docente di una cattedra ambulante prima della guerra o da un fattore diplomato a un istituto tecnico agrario, c'é poco di naïf nel nostro mondo. Solo le illusioni di cittadini che sognano il ritorno in una mitica Arcadia campestre che non è mai esistita. Chi parla di belle cose romantiche, di nonni e di mostri sacri mi desta una diffidenza istintiva, preferisco chi indica come basi del suo lavoro seri istituti di ricerca, la pratica presso grandi professionisti (non parlo di titolari di aziende, parlo di chi gestisce le colture per lavoro) e cose di questo tipo.

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Eretico Enoico

circa 10 anni fa - Link

Sintetico e condivisibile.

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Riccardo

circa 10 anni fa - Link

Did you heard about "Vigna day"??

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maurizio gily

circa 10 anni fa - Link

Stimo molto Simonit e Sirch. Che non abbiano inventato nulla sono loro i primi, con modestia, ad ammetterlo. Il loro merito è aver adattato conoscenze antiche, sia di tipo empirico che reperibili su vecchia bibliografia scientifica, ad una viticoltura radicalmente trasformata dalla meccanizzazione in cui si è cercato di adattare le piante alle macchine piuttosto che il contrario, Quanto ai potatori "extracomunitari" quello che posso dire è che più facile insegnare a potare bene (e non solo a potare) a chi non ha mai potato piuttosto che a chi ha sempre potato male.

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