Il vino anarchico e libertino di Gino Veronelli

di Pietro Stara

Luigi Veronelli, come un novello Daniello Bartoli[1], mostra il volto alle parole, trascrive icone che contrassegnano concetti: la natura si umanizza, prende corpo, mani, capelli, bocca, e, infine, in maniera stupefacente, trasforma l’acqua che trae dalle radici in un liquore tutto fuoco, il vino!  «Il vino, dopo l’uomo, è il personaggio più capace di raccontare storie, di lanciare messaggi vasti e antichi, di presentarsi con i suoi documenti d’identità completi. Io, quando assaggio un vino, sento tutto quello che è successo in quella terra dove è nato, tra quella gente che l’ha coltivato, in quelle mani che l’hanno toccato. E’ inquietante, lo so, ma è proprio così. Il vino vive di vita propria[2]».

Per Veronelli la scienza non ha ancora occupato lo spazio, né si intuisce possa farlo, delle infinite metamorfosi del vino. Un  pensiero ecologico radicale per un’epoca, come quella degli inizi anni ’60 del secolo scorso, in cui l’industrialismo marca le sorti ineluttabili e progressive del genere umano: «vi è qualcosa che sfugge, qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima. Ha origine dalla pianta simbolica, la vite. E’ coltivato e non fabbricato come le cose inerti. E’ soggetto a mille condizioni naturali prima di venire alla luce; un giorno nasce e subito ha bisogno di attente cure; solo attraverso pericoli ed esperienze giunge alla maturità, per poi declinare e, più vecchio morire. Un ciclo che è di ogni creatura.[3]»

Ed è proprio in quel contesto che fa la sua apparizione la famosa frase di Luigi Veronelli secondo cui «il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale». Non perché, come erroneamente è stato tradotto sino a noi, vi è una lettura semplicistica e bucolica di un mondo come quello contadino, superbamente anarchico, che concilia animalità e grande umanità, né perché vi è una presunzione anti-scientifica di tipo mistico-ancestrale, ma soltanto una vecchia testardaggine: «essere i vini contadini migliori. Piccolo il podere, minuta la vigna, perfetto il vino. Polemica aspra su ciò. Spergiurano: il contadino non sa vinificare; non sa e tu insegnalo; ma non che non conviene, cuopre cuopre. A uve sane, o bestie, è l’immediata opera. (…) Nego con ciò la validità dell’intervento ‘enotecnico’? Affatto; dico solo che deve essere condizionato. Le ‘pratiche’ che rispettano l’integrità della composizione naturale del vino sono lecite nella misura in cui apportano un’intelligente correzione delle sue ‘imperfezioni’. La natura, nella sua infinita sapienza, ha tutto previsto perché l’uva, se è sana, se è colta al punto esatto, si trasformi in vino con il minimo aiuto dell’uomo; aiuto che deve favorire i fenomeni naturali e non alterarli[4]

L’apprezzamento per un mestiere artigianale, libero ed individuale, coincide con l’opinione secondo cui la natura è in grado di fornire una materia prima di eccellenza atta ad essere trasformata, senza alterazioni. “Ant’anni” prima, come avrebbe detto Gino, che qualsiasi format biologico costruisse una cornice procedurale e simbolica del ‘naturale’. Il vino è dunque, nei secoli, Bacco, Lieo, Libero: è emancipazione dalla tirannia, civiltà che cresce all’ombra delle vigne, libertà dei costumi. Lo sguardo di Gino si rivolge ai maestri d’Oltralpe, alla “quadriade” intraducibile dello splendido concetto di terroir: la vite, il terreno, il clima, l’essere umano.

Gino cammina le campagne e beve molti vini – quanti? «- flebile in matematica, non ne ho mai tentato il conto; 10 bicchieri pro die “a sbutoni” da quando ho iniziato a bere; 10 anni e ora ne ho – quasi – 78, centinaia di migliaia di bicchieri[5]» racconta in una delle sue ultime conversazioni che ci giungono scritte, poco prima di lasciare il palcoscenico della vita. Veronelli ama rivolgersi al lettore con il ‘tu’, «instaurando una comunicazione di grande familiarità, di anarchica abolizione delle gerarchie allocutive[6]»: «se non ami il vino, se non sei disposto a riconoscerlo amico, non leggermi’[7].» Da qui partono le sue mirabolanti descrizioni dei vini, risalenti, nelle loro prime formulazioni, ad un’Italia ancora priva delle denominazioni di origine: alla fine degli anni Cinquanta[8]. Solo così possiamo renderci conto di quanto tutta letteratura eno-gastronomica, di lì a venire, sia in qualche modo a lui debitrice: «Grignolino di Migliandolo. Colore: rosso rubino delicato, ma vivo e acceso (sottile trasparenza porporina); brillante. Profumo: bouquet anche delicato e fresco (con lievissima insistenza erbacea). Sapore: asciutto senza cedimenti e senza asprezza; sottile fondo amarognolo di grande eleganza; sentore di pepe bianco, lieve fragranza di rosa; nerbo sottile ma deciso e stoffa leggera ma aristocratica; ha carattere e razza. Questo l’esame organolettico  di un grignolino accolto nel volume, il quadro direi delle sue “costanti”, anno per anno, buona o cattiva l’annata.

Dice tutto quella descrizione? No, non può dirlo, non dice ad esempio, che è vino testa balorda, anarchico, individualista; rosso chiaro, vivo di trasparenza porporina alla nascita, subito asciutto senza cedimenti ed asprezze, vuole essere bevuto da giovane; uno, due, cinque anni secondo volontà sua (capace, in certe annate, di andare avanti, a dispetto), si fa colore rosso rubino  (se ne ha voglia, si smorza (se ne ha voglia) nell’aristocrazia; solo se ti riconosce amico, per come lo ascolti, per cure che gli dài, svela tutto il bouquet sottile di verde nocciola ed il gusto lieve amarognolo, pacato, e attento, controllato (finalmente) e armonico. Se, nell’esame organolettico, avessi messo tutto questo, il tecnico si sarebbe confermato: “Veronelli è matto” e, testa balorda anarchico individualista come quel suo vino, inattendibile[9].» E il suo sguardo si getta Oltralpe, alla qualità che circoscrive, delimita e riconosce: il cru, anche in bottiglia. Battaglia che precorre le denominazioni comunali d’origine (De.C.O.), per tutelare i manufatti di origine, siano essi agricoli, alimentari o culturali prodotti in un determinato territorio perché così «non passano – ripeto – due anni e le multinazionali si liquefanno al sole[10]

Concludo proprio là, al confine tra il sacro e il profano, con la prima dissacrante parodia della messa[11], dove Gino Veronelli incomincia i suoi “Vini d’Italia”: « Introibo ad altare Bacchi, ad eum qui laetificat cor hominis.» Perché allora, come oggi, e con lo stesso spirito goliardico, si avverte e si esalta quell’inesprimibile del vino.

 


[1] Daniello Bartoli, La ricreazione del savio, a cura di B. Mortara Garavelli, Parma, Fondazione P. Bembo/U. Guanda Editore, 1992 (Edizione originale del 1659).

[2] Luigi Veronelli, Prima, dicembre 1984, in Gian Arturo Rota, Nichi Stefi, Luigi Veronelli. La vita è troppo corta per bere vini cattivi, Giunti/Slow Food Editore, Milano, Firenze, Bra 2012, pag. 300

[3] Luigi Veronelli, I vini d’Italia, Canesi Editore, Roma 1961, pag. 13

[4] Luigi Veronelli, Il vino giusto, Rizzoli, Milano 1971, pag. 23

[5] Luigi Veronelli, Pablo Echaurren, Bianco Rosso e Veronelli. Manuale per enodissidenti e gastroribelli II°, Stampa Alternativa, Virebo 2005, pag. 98

[6] Manuela Manfredini, Parlare col ghiottone. L’Italiano delle guide gastronomiche, in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/panevino/3.html

[7] Luigi Veronelli, Il vino giusto, cit. pag. 9

[8] Cfr. Luigi Carnacina, Luigi Veronelli, La grande cucina : 3715 ricette, 242 soggetti a colori, 221 soggetti in nero, 139 disegni, a cura di Luigi Veronelli Contiene dizionario gastronomico, Garzanti, Milano 1960; Luigi Veronelli, I vini italiani, cit.

[9] Luigi Veronelli ( a cura di), Catalogo Bolaffi dei vini d’Italia. “Il Gotha dei vini”, prima ristampa, Giulio Bolaffi Editore, Torino 1970, pp. XIX, XX

[10] Luigi Veronelli, Pablo Echaurren, Bianco Rosso e Veronelli, cit. pag. 49

[11] Risalente al XII secolo sotto il nome di Officium Lusorum si riferisce al codice di Benedictbeuern (Carmina Burana), di cui si ha una versione più tarda pubblicata da Tommaso Wright come Missa de potatoribus (Messa dei bevitori) o Missa gulonis Cfr. Francesco Novati, Studi critici e letterari. L’Alfieri poeta comico. Il ritmo Cassinese e le sue interpretazioni. Un poeta dimenticato. La parodia sacra nelle letterature moderne. Loescher Editore, Torino 1889.

Articolo pubblicato su A-rivista anarchica numero 393 – 2014
mese di novembre nel dossier “critical Gino”

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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