Il degustatore quantico è vivo e lotta con noi

di Pietro Stara

Qualche tempo addietro vi proposi una carrellata di tipologie di degustatori, da quello narciso al déjà-vu, passando per il bevitore “che non c’era” e via discorrendo. Ora, appunto, non vorrei privarvi di nuove figure elaborate a cavallo tra la filosofia antica, la scienza linguistica e la patafisica raggiunta durante il sonno paradossale, detto anche fase rem.

Un tempo si credeva che le scimmie non riuscissero parlare, potendolo fare, per via di una conformazione troppo rozza della laringe e degli organi fonatori. Così il dottor Herbert Terrace della Columbia University di New York, pare non indenne alle lusinghe delle droghe più pesanti, decise di intraprendere un esperimento straordinario per porre fine ad una diatriba tra scienziati, linguisti e massaie di Voghera che durava almeno dai tempi dell’arca di Noè: il “progetto Nim”.

Leggete un po’ come andò: “Nim Chimpsky era uno scimpanzé di due settimane, chiamato così per parodiare il nome di Noam Chomsky, linguista e intellettuale fra i più influenti del XX Secolo (chimp in inglese significa appunto scimpanzé). Nato in cattività presso l’Institute of Primate Studies di Norman (Oklahoma), nel dicembre del 1973 Nim venne sottratto alle cure di sua madre, e affidato da Terrace a una famiglia umana: quella di Stephanie LaFarge, sua ex-allieva. L’intento era quello di crescere il cucciolo in tutto e per tutto come un essere umano, vestirlo come un bambino, trattarlo come un bambino, insegnargli le buone maniere, ma soprattutto cercare di fargli apprendere il linguaggio dei sordomuti. Se Nim fosse riuscito ad imparare il linguaggio dei segni, sarebbe stato un vero e proprio terremoto per la comunità scientifica. Il professor Terrace però commise da subito un grave errore. La famiglia a cui aveva affidato Nim non era effettivamente la più adatta per l’esperimento: nessuno dei figli della LaFarge era fluente nel linguaggio dei segni, e quindi nella prima fase della sua vita, quella più delicata per l’apprendimento, Nim non imparò granché; inoltre, la madre adottiva era un’ex-hippie con un’idea piuttosto liberale nell’educare i figli. Nim finì per essere lasciato libero di scorrazzare per il parco, di mettere la casa sottosopra, e addirittura di fumarsi qualche spinello assieme ai ‘genitori’.

Terrace decise quindi di incaricare una studentessa ventenne, Laura-Ann Petitto, dell’educazione di Nim. Strappato per una seconda volta alla figura materna, lo scimpanzé venne trasferito in una residenza di proprietà della Columbia University, dove la Petitto cominciò un più rigido e intensivo programma di addestramento. In poco tempo Nim imparò oltre 120 segni, e i suoi progressi cominciarono a fare scalpore. (…) Con lo sviluppo sessuale e la maturazione verso l’età adulta, inoltre, crebbe anche la sua aggressività: la Petitto venne attaccata diverse volte, due delle quali in maniera molto grave. I morsi di Nim in un’occasione le lacerarono la faccia, costringendola a 37 punti di sutura, e in un’altra le recisero un tendine. La tensione psicologica era insopportabile, e la Petitto decise di lasciare l’esperimento (…). Joyce Butler, una studentessa di vent’anni, entrò a sostituire la Petitto come terza madre adottiva di Nim. Anche lei fu più volte attaccata dalla scimmia, e la difficoltà di reperire fondi fece infine decidere a Terrace di dichiarare concluso l’esperimento, e smantellare il progetto dopo solo quattro anni. Il professor Terrace, dopo aver cercato ed ottenuto la fama grazie a questo ambizioso progetto, tornò sui suoi passi e dichiarò che il progetto era stato fallimentare; scrisse che Nim non aveva mai veramente imparato a formulare delle frasi di senso compiuto, ma che era soltanto divenuto abile ad associare certi segni alla ricompensa, e aveva capito quali sequenze usare per ottenere del cibo.”

Questo esperimento divenne in seguito oggetto di studi antropologici, atti a dimostrare i possibili danni relativi al convincimento di un coccodrillo a personificare una lucertola, pena trovarsi senza una gamba dopo avere tentato di giocare a guardia e ladri in salotto. A parte una mia vecchia prozia sarda, rigorosamente monarchica e creazionista, che parlava immancabilmente con tutti, compresi i gatti da cui si aspettava risposte adeguate, sembra appunto che il linguaggio sia una prerogativa umana. Insomma quella che la mia insegnate di italiano delle medie, che lo aveva appreso dal bisnonno, valente maestro elementare, chiamava sintassi. Partendo da un esempio costituito da tre elementi linguistici quale ‘vino rosso è’, che si può combinare in diversi modi (‘è vino rosso’ o ‘vino è rosso’, oltre al primo nella variante italo-sarda) siamo in presenza di un vero e proprio salto quantico cartesiano: “non esistono persone che non siano capaci di disporre insieme delle parole e con esse comporre un discorso con il quale far intendere il loro pensiero. E al contrario non esiste un altro animale tanto perfetto o posto in una condizione tanto favorevole da poter fare una cosa simile”. (Discorso sul metodo, parte V, 1560).

Il degustatore quantico, fase dalla quale siamo passati e in cui abbiamo sostato tutti, è fermo ad uno stato primordiale in cui il vino viene definito grazie all’uso di un unico aggettivo qualificante: buono, rosso, fermo, mosso, poco, molto…, a cui possono seguire fonemi onomatopeici del tipo “mmmmh”, “bleah”, “slurp”. Per alcuni le onomatopee sono sostenute da smorfie di piacere, di disgusto, oppure dal famoso dito che rotea sulla guancia con lingua slittante destra-sinistra e viceversa. Antonio Albanese ne fu stupendo esegeta.

Il degustatore quantico in fase primordiale, solitamente, entra in un bar e dice: “Buongiorno, un rosso”, a cui segue la ribattuta del barista: “Fermo o mosso?”.” Fermo” “A lei, 1 e 50”. Noccioline sul bancone in tazza 4×4.

Ma non pensate che il degustatore quantico sia riconducibile soltanto a persone in carne ed ossa: può capitare di essere comodamente seduti in un’osteria fuori porta che vi viene consegnata una sorprendente carta dei vini compilata e successivamente corretta, segnata più e più volte, con rimandi a fondo pagina in cui compare la famosa dicitura: vino della casa. Seguono le specifiche rosso, rosato e bianco. Quando si esagera di penna, qui in terra ligustica, compare anche il termine “nostralino”. “Cos’è?” – “Non so, lo prendiamo – sai – alla cantina sociale quella di giù, sai, il paese – come si chiama – quello in provincia di Piacenza… ma è buono.”

[Precedenti puntate: il paranoico, il déjà vuil narciso, quello che non c’era].

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

3 Commenti

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vinoltre

circa 9 anni fa - Link

I piacentini potrebbero offendersi....:)

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vinoltre

circa 9 anni fa - Link

I piacentini potrebbero offendersi...:)

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Pietro Stara

circa 9 anni fa - Link

Da frequentatore abituale dell’Alta ValTrebbia sono anche un assiduo bevitore dei vini piacentini. Da quelle parti arrivano molti vini sfusi. Pure dall’Oltrepò.

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