Degustazioni in campo aperto. Walter de Battè racconta del suo vino Harmoge

di Pietro Stara

«De Battè: lo spirito che ha originato questi vini non ha molto a che fare con il mercato, ma con uno spirito di espressione di ricerca personale, di territorio, di vitigno. La ricerca non è su canoni di piacevolezza. È più un’espressione estetica. Un vino si definisce come un triangolo, anche Dio lo si definisce come triangolo, un triangolo virtuoso: il vitigno, il territorio e l’uomo sono tre elementi che giocano per costruire un vino. Da come questi elementi si combinano, si determina uno stile e lo stile è questione di differenza. Ho abbandonato la doc perché spesso sono espressione di un mondo burocratico che non esiste nel reale.

Un mese fa ad una ragazza che sta facendo una tesi di antropologia ho detto che le doc hanno dei parametri, ma la natura, a seconda delle stagioni, esprime dei parametri diversi ed alcuni di questi, se la seguiamo,  fanno uscire naturalmente i vini dalle doc, per cui per farli rientrare dobbiamo correggerli in modo tale che i parametri tornino ad essere quelli delle doc: si chiede di fare una cosa illegale per tornare nel legale. Per cui la doc è qualcosa che ha funzionato bene più che altro come rappresentazione di rappresentanza: per chiarire chi siamo all’estero, ma la realtà e più complessa e in zona mediterranea c’è una dinamica costante che scorre continuamente.

Da questo scorrere c’è una grande energia di base che va resa fruibile ma non è mai uguale e se stesa. Questi vini sono vere e proprie ricerche stilistiche. Il mediterraneo ha uno stile di vinificazione che non fa parte delle vinificazioni che avvengono dalle altre parti. La cultura mediterranea implica il contatto con le bucce che non è solo una complessità di terra ma anche di mare. Si dice che i vitigni semi-aromatici, come ad esempio il Sauvignon, hanno bisogno di giorni caldi e notti fredde: se applichiamo queste caratteristiche al Vermentino, questo non matura. Mentre questi vitigni che si affacciano sul mare hanno bisogno di climi costanti per cui non ha senso vinificarli con culture mitteleuropee.

Il rapporto tra vino e legno: le barrique e i tonneaut devono essere dei laboratori, con il bâtonnage i lieviti vanno in cima e cominciano a respirare e ad elaborare la parte tannica e la trasformano in altro. I grandi maestri dell’uso delle botti sono in Borgogna: il vino deve essere ‘sporco’ quando viene immerso in questi contenitori. Nella costruzione degli aromi non usiamo anidride solforosa e quindi produciamo un vino senza intercettazioni né commistioni con i solfiti. Lo zolfo che si sente è molto bello e non è quello dei solfiti. Il vino ha bisogno di materiali osmotici per esprimersi. In una degustazione che avevo fatto a Roma un giornalista famoso mi disse che i sur lie è una  sorta di cordone ombelicale che porta alla gestazione del vino e io  ho concordato aggiungendo che l’anidride solforosa viene usata prima dell’imbottigliamento, durante il trauma della nascita, per proteggerlo soltanto in quell’attimo: un vino viene tolto da una  situazione fetale e viene buttato dentro una bottiglia piena di aria. Conoscendo il ph possiamo determinare l’aggiunta di anidride solforosa soltanto per quello che ci serve per proteggerlo in quel momento. Poi il vino si distende nella bottiglia naturalmente.

Harmoge: la vendemmia di Ponzano Magra viene fatta quasi tardiva; la macerazione dura cinque giorni e poi il vino affinato in carati italiani, mentre il Bosco e l’Abarola fanno macerazioni di otto giorni e poi vengono messi in carati francesi. È un vino che ho dedicato ad Edoardo Valentini un grande enologo che avevo vinificato il primo Trebbiano d’Abruzzo leggendo monaci francesi del 1700. Lo imbottigliava dopo che era stato sui lieviti e lo imbottigliava a maggio: usava la forza dell’anidride carbonica per non usare l’anidride solforosa.

Note di pietra focaia, di alghe disidratate, di iodio, che fanno parte del nostro quotidiano. In una giornata di salmastro in Liguria si sentono queste note. Il colore è un paglierino intenso tendente al dorato: si è portato questo vino ad avere una riduzione e poi si apre completamente in bottiglia. Lo si fa anche per capire  la parte al di sotto di questi vini ancestrali: l’apollineo come elemento di espressione e il dionisiaco come elemento di profondità con note difficilmente percettibili, terrose e profonde che percepiamo ma non riusciamo darne una rappresentazione. Questa parte ancestrale, questo magma originario fa da contrappeso alla parte più solare del vino. In bocca è ancora piena di spigolosità. Un giornalista mi diceva che è quasi un quadro cubista. Sentiamo questa pietra coni suoi angoli, le sue punte, la sua ricchezza in complessità e in diversità: siamo ancora in una fase in cui l’amalgama non è perfetta. A me interessa moltissimo seguirlo in tutte le fasi. È interessante vedere come questi elementi smussati si armonizzino tra un anno, ma con il rischio che questo reticolato minerale cada.

Le basse rese in vigna ci permettono che il vino non cada: non si costruisce sul binomio acidità / zuccheri come viene fatto per i bianchi normali, ma si edifica su di una colonna centrale ovvero sugli estratti e sulla mineralità e poi si lanciano degli orpelli, dei disegni. Non si fanno vendemmie strumentali come si fa per i bianchi, ma si fa un ragionamento da rossi ed entra in gioco un terzo elemento, che una nota associazione di sommelier non ha mai riconosciuto, ovvero il tannino dei bianchi (che si distingue solamente assaggiando l’uva). È interessante mangiare l’uva e quando il vinacciolo è croccante siamo alla maturazione dei polifenoli e alla maturazione della pare verde dell’uva. Nel 2003, anno caldissimo, avevamo una buona produzione di zuccheri ma i polifenoli non erano sufficientemente sviluppati per cui avevamo dei tannini acerbi.»

 



[1] Questo articolo è tratto dal mio libro: Il discorso del vino. Origine, identità e qualità come problemi storico-sociali. Edizioni Zero in Condotta, Milano 2013

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

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