I vini di Montello e Asolo al gusto dei contemporanei. Parte seconda

di Pietro Stara

Mi viene a prendere nei pressi dell’avveniristica stazione ferroviaria di Savona, sospesa e protesa in avanti, verso la città e il porto, perché dal basso, un tempo, era stato previsto un hangar per autobus. Linda mi aspetta di sotto, con la vettura pluri-chilometrica e pluri-decorata che ha fatto lavare appositamente per me: direzione Asolo Wine Tasting. Il viaggio è tranquillo e il sole, che bacia i belli e si è un attimo distratto, mi surriscalda la parte destra del corpo sulla motorway Piacenza – Brescia.

Io e Linda ci conosciamo prevalentemente su facebook e per rompere gli indugi dettati da una timidezza ancestrale, che colpisce tanto i liguri quanto i piemontesi, le offro delle patatine “più gusto” alla paprika. Arriviamo nella Marca Trevigiana per prendere “le quattro corsie”, così chiamate da quelle parti, e attraversiamo pianure padane abitate in numero eguale da autovelox e viventi. Saliamo su ad Asolo costeggiando il giardino recintato di Freya Stark e i portici medievali prima di giungere nella piazza centrale, Garibaldi, su cui signoreggia l’albergo “Al sole” che ci ospita. Ritrovo ore 17 per giro turistico della città accompagnati dalla (si rivelerà) molto brava Bojana Balic e dall’entusiastico presidente del consorzio vini Asolo e Montello, Armando Serena.

In poco più di mezz’ora c’è una concentrazione di blogger e giornalisti vinosi tale da rendere superflua ogni connessione ad un wireless pur che sia. Ci stringiamo le mani e facciamo le presentazioni: dal web alla carnalità. Inseguiamo poi i cento orizzonti carducciani e io ne trovo almeno ventisette, cercando di evitare di essere investito da nugoli di ciclisti dalla pedalata prestante. Splendido! Dall’altra parte del Piave il Monte Grappa ci consegna il suo lato in ombra quasi a voler restituire un monito sugli esiti nefasti di possibili nuove guerre fratricide. E al di là del Piave ci sono anche quelli di Valdobbiadene.

Ceniamo all’hotel accompagnati da cuochi pregevoli e da innumerevoli tipologie di vino locale. Da buon scolaro prendo appunti, scomposti e sbrodolati come si conviene cenando. Il giorno seguente voltiamo verso la tenuta ”Abazia” della società agricola Giusti. Siamo ai piedi dell’Abbazia di Sant’Eustachio, importante cenobio di monaci Benedettini-Cassinesi, le cui origini risalgono all’XI secolo e i cui fasti proseguirono con fasi alterne sino al 1521, sul colle che sovrasta Nervesa, poi della Battaglia. E oggi i ruderi. Altro monito.

Tutt’intorno viti: non meno di sette diversi tipi di uve per ottenere il Prosecco Superiore. Manzoni bianco e glera per il Passito Bianco. Merlot e cabernet sauvignon per l’Umberto I, Primo, il nonno di Ermenegildo Giusti. Quella mattina assaporiamo l’Asolo Prosecco Superiore Docg Brut, il Cuvée e l’Umberto I. Faccio il tifo per il primo dei tre: fresco, agrumato, leggermente pungente e finemente croccante. Poi un ombrello di fiori violacei fragranti, salvia e la delicatezza dell’acacia a chiudere.

Il pomeriggio si snoda in un programma da cardiopalma: raggiungiamo Ca’ Recantina intorno all’una e mezza. La salita è ripidissima e il sole a picco: vengo affiancato da Jeremy Parzen, podista per davvero, e ci lasciamo alle spalle il gruppetto capeggiato da Alessandro Scorsone, che è pure in giacca e cravatta, con valigetta ventiquattrore aggrappata strenuamente alla mano, e fa finta di non soffrire. Io arrivo a poco più della metà della strada e mi faccio caricare da un’auto. Jeremy arriva in cima non sudato e sorridente come si addice ad un texano dabbene: Scorsone secondo, poi si accascia sulla prima sedia che trova. Andrea Fasolo non ci pensa neppure. Si fa caricare dal basso: ha quel senso del pudore che mi manca in diverse occasioni.

La degustazione parte in salita: mio dirimpettaio è Paolo Ianna, decano esperto e probo degustatore di tutte le tipologie di vino con le bolle che si affacciano da quelle parti. Ficca il naso nel bicchiere, chiude gli occhi, assapora lungamente con le narici e poi esprime verdetti inappellabili utilizzando descrittori mutuati dal suo meccanico di fiducia: “Frizione bruciata in salita”; “gomme surriscaldate”; oppure direttamente dal mondo dello scatolame: “scatoletta di tonno appena aperta”. Implacabile. Non bastasse, quelli de “I Vini buoni d’Italia”, la maggioranza del gruppo di degustatori, utilizzano anche un parametro valutativo di inebriante soggettività oggettiva: la piacevolezza. “Non sei d’accordo”? – mi fa Ianna. Io: “ci mancherebbe!”

A stretto giro di posta, mentre assaporiamo gli ultimi rossi, la conferenza sui lieviti autoctoni isolati, valorizzati e riprodotti, con risultati a dir poco molto incoraggianti, realizzati da un laboratorio di ricerca locale top secret. In forma cremosa. Gli esiti di tale indagine potrebbero mettere in serio pericolo il duopolio delle multinazionali che detengono l’esclusiva per la produzione dei lieviti industriali. Durante l’accorto ascolto cercavo, tastando, possibili cimici posizionate sotto il tavolo. Michele Antonio Fino interviene per concludere, in bello stile e in tarda serata, sulla proposta di un nuovo disciplinare del Colfòndo.

L’idea non è ancora stata approvata dai consorzi che ospitano, tra gli altri, vecchi incalliti e nuovi colfondisti: sembra però che, grazie alle variabili qualitative introdotte, il progetto sia una vera e propria sintesi suprema. Dunque in albergo. Giusto un’ora in versione pelle di bovino adulto sdraiato sul pavimento. Poi alla volta di Pat de Comèl: girovaghiamo per le splendide vigne in attesa della cena e incappiamo in una vite ultracentenaria di recantina. Magnifico esemplare di un vitigno a bacca nera che in quella zona avevano estirpato praticamente dappertutto. Lino Forner, al contrario di molti, ne aveva mantenuti alcuni filari: oggi sono sette/otto i produttori di recantina della zona asolana. Ma in prospettiva potrebbero essere molti di più. La recantina di Lino e del figlio Matteo è davvero buona: alla beva non è semplice perché l’acidità spinge parecchio. Ma è ben sorretta da una pregevole struttura e mitigata da frutti di sottobosco, violetta e rosa appassita e da una speziatura su cui dominano i chiodi di garofano. Poi, più lontane, note di caffè e cacao.

Durante la cena ci propone una recantina fatta in stile ripasso, che ora non produce più, del 2006: quasi più giovane della prima. Ci sediamo a tavola alle benevolenze di Gabriella, splendida cuoca e moglie di Lino. Lì a Castelcucco, dove sono ubicate le viti, i prosecchi vengono molto più simili ai dirimpettai di Vadobbiadene e così lo stesso per quelli di Pat del Comèl: mela verde molto in evidenza, poi fior di tiglio, gelsomino e acacia. La serata si snoda al meglio e le confidenze si fanno fitte: “Sai, ai vecchi il prosecco come lo beviamo oggi non piaceva”, ci racconta Lino. E aggiunge: “Lo consideravano una bevanda e non un vino”. A loro piaceva quello, e mi indica una bottiglia di un vino che ha voluto chiamare “Pat Storico”: il mosto dopo la pressatura viene lasciato illimpidire per 24 ore. Poi passa ad una fermentazione lunga, di circa 15 giorni, a temperatura controllata piuttosto bassa: 14, 15 gradi. Infine il vino viene conservato al fresco sino alla spumantizzazione. Le note agrumate prendono il volo e toccano il cielo, più ancora al palato che al naso. Quest’ultimo assapora frutti gialli più maturi con una lieve sterzata sull’esotico. Seratona, come si suol dire.

L’ultimo giorno prevede un dibattito sul ruolo delle guide, che vede la presenza notevole di alcune di esse nel panorama italiano: ne mancano altre altrettanto autorevoli e, soprattutto, manca la rissa. Poi i banchi d’assaggio. Mi piacerebbe parlare di altre compagne e compagni di ventura, ma mi dilungherei troppo. Vorrei solo rammentare che tutti i fatti sono realmente accaduti, per quanto mi ricordi, e che nessun vignaiolo è stato maltrattato dai blogger durante le tre giornate. Un’unica pecca: avrei voluto assaggiare più espressioni del colfondismo locale. Ora un po’ di assaggi sparsi.

Cirotto.
Il Manzoni bianco è, senza dubbio, un vino di eccellenza dei colli Asolani e del Montello: alcuni begli assaggi, ma soprattutto, una grande potenzialità per il tempo a venire. Il Manzoni bianco, 2013, di Cirotto è uno di questi: macerazione a contatto con le bucce, a freddo, e vinificazione in acciaio. Il succo e la polpa sono del territorio: pompelmo rosa, ananas, pesca, salvia e glicine. La sapidità (in questo terroir consegna ai suoi vini un’inusitata piacevolezza) sorregge egregiamente l’impalcatura che si apre in lunghezza. Aromaticità molto ampia, al contrario del 2012, che paga un piccolo pegno ad un sole rovente. Ma non è finita qui: il Manzoni bianco viene prodotto anche come metodo classico dosaggio zero, un “Sogno”. Direi non più un tentativo, soltanto un certezza: ai sentori sopradescritti si aggiungono quelli di una lunghissima permanenza sui lieviti, una freschezza trasbordante e un ingresso in bocca tagliente come una lama di un coltello Santoku. Appassionante.

Ida Agnoletti.
“Ci tengo molto a questo vino” – mi dice Ida Agnoletti poco dopo l’assaggio del suo Incrocio Manzoni 6.0.13. “Cosa ne pensi?” – aggiunge. “Dimmelo francamente” – chiosa. In tre battute un mondo, che rimanda al nostro mondo, quello dei valutanti. Come a dire: ”guarda che dietro quel vino c’è fatica e c’è pensiero”. I lieviti sono quelli indigeni: macerazione sulle bucce per 24 ore a 10°C e fermentazione in bianco alla bassa temperatura di 13-15°C. Poi una lunga sosta sulla feccia fine per sette mesi circa. Esuberante al naso e in continua evoluzione: è come se la parte agrumata, estratta all’inizio del processo, dovesse fare a spintoni con i sentori più evoluti, quelli che acchiappano i loro equivalenti secchi: pera e ananas. La malolattica allarga il palato in morbidezza e non scende di quella sapidità che costella i vini del territorio. Un ritorno vegetale nel finale.
Recantina: rimontaggi con macerazione per 15-20 giorni dopo fermentazione a cappello galleggiante in acciaio inox. Espressione viva dell’uva: estrazione potente, gioventù molto prolungata. Colore tendente al violaceo, almeno nei riflessi. Da bersi adesso, ma anche tra sei anni.

Martignago.
Il primo vino asolano assaggiato sulla terrazza dell’hotel è stato lo “Xero” – sugar free (che lo fa sembrare anche un po’ dietetico), un Prosecco superiore d.o.c.g. extra brut: fresco, diretto, bevererino, attenua, ma non potrebbe essere diversamente, la carica aromatica. Al suo opposto “Joel”, un extra dry giallo scarico dove predominano tonalità verdognole. Al naso fiori d’acacia, pesca matura, a cui si aggiungono mela, salvia e sapidità in bocca quanto basta a tenere in piedi un pregevole intelaiatura.

Case Paolin.
Biologici certificati. S’inizia con un Asolo Prosecco Superiore brut che mantiene inalterata un bellissima fragranza e un’inaspettata lunghezza in bocca. A seguire “Costa degli angeli”, un Manzoni Bianco realizzato con macerazione a freddo e vinificazione/conservazione “in riduzione”. Polpa, succo e sapidità da leccarsi i baffi. Per chiudere il pregevole San Carlo: taglio bordolese (cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot). Malolattica e affinamento in barrique per un periodo di 12-14 mesi. Assemblaggio in botte per sei mesi e poi bottiglia per altri sei. Una succosa essenza di prugna e di mora segnata dalla vaniglia delle botti con una mano tesa a sensazioni evolute.

Tenuta Baron.
Se volete buttarvi a piene mani in una primavera ricolma di lamponi, fragole di bosco, ciliegie, rose, erbe di campo senza cedere a sdrucciolevoli cadute zuccherine, supportate dal ritorno amaro del verduzzo, ecco a voi madame Rosé delle Stelle Spumante Rosé Extra Dry. Le altre uve sono la glera, il cabernet sauvignon e il raboso. Metodo Charmat.

Loredan Gasparini.
“Cuvée”, Asolo Prosecco Superiore d.o.c.g nasce dalla selezione dalle migliori uve della vecchia “Vigna Belvedere”, appezzamento del 1969 situato sulla collina del Montello. Il mosto, subito dopo una pigiatura soffice, viene messo in autoclave a bassissima temperatura. I lieviti indigeni, senza aggiunta di zuccheri, favoriscono una fermentazione molto lenta. La fermentazione a bassa temperatura dura per oltre 9 mesi. Avvolgente e fitto perlage di noce e mandorla. Per tutto il resto rimando al bellissimo articolo, di qualche tempo fa, pensato e scritto da Corazzol.

Bele Casel.
Che volete che vi dica, in fondo? Confermo e ricalco tutto e il contrario di tutto di quanto scrissero e dissero gli intravinici che, prima del sottoscritto, trattarono a dovere Luca Ferraro: Fiorenzo Sartore, ma anche Giovanni Corazzol, ma anche Andrea Gori. Mi sono compiaciuto della sapidità e del ritorno amaro. Anche per quelli non colfòndisti.

[Questa la prima parte del report dopo Asolo Wine Tasting]

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

2 Commenti

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Emanuele

circa 9 anni fa - Link

Il sigaro di Soldati. La zeta di Zorro. La coperta di Linus. La Strada di Swann. E la salita in automobile con patatine "più gusto" alla paprika.

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carolaincats

circa 9 anni fa - Link

allora: - la piana ha più autovelox che umani, quanti in funzione non si sa, culo che non li becco - quasi - mai; - i ruderi dell'abbazia erano il luogo in cui consumavo il mio pranzo quando ho lavorato da serafini e vidotto, che avevano la cantina poco sotto. luogo splendido, ricco di energia, che all'epoca non era proprio in pienissima forma. - Fasolo poteva anche farsela a piedi, vista la scaltrezza del texano Jeremy! alla fine è un giovinastro, diversamente geriatrico direi :) - Scorsone con valigetta avrei voluto vederlo, sopratutto se manteneva il suo aplomb - scritto che descrive bene la zona e le sue bellezze. mi piace sempre leggerti, mi ricordi cose belle. grazie! ps: Lino è un saggio.

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