Appunti sparsi sulla relazione tra spezie fini e notizie gratis

di Pietro Stara

Un presente fagocitante. Viviamo in tempi in cui una notizia, un commento, un articolo si storicizzano immediatamente. Studi recenti via Bitly (1) hanno valutato il ciclo di vita dei link condivisi su diverse piattaforme. Bitly ha considerato i 1.000 link più condivisi in rete e ha calcolato la loro half life, ossia “il periodo di tempo nel quale il link riesce ad ottenere la metà di tutti i click che riceverà complessivamente nel suo ciclo di vita”. L’half life medio di un link condiviso su Twitter è risultato essere di 2,8 ore, su Facebook 3,2 ore, via fonte diretta (email o instant messenger) di 3,4 ore. Su YouTube un link sopravvive per 7,4 ore.

È un presente che fagocita il passato dopo aver divorato il suo futuro: «Grazie alle possibilità offerte dallo sviluppo dell’informatica, si è costituita una vera e propria ‘tecnologia del rischio’, che fa appello al virtuale e alle simulazioni. In un universo incerto, la scelta non comporta una sola proiezione sul futuro. Non si tratta più di ‘prevedere il futuro’, ma di ‘misurare gli effetti sul presente di questo o di quel futuro’, spingendosi avanti virtualmente in più direzioni prima di sceglierne una. (…) Si ‘parte’ dal presente e non se ne ‘esce’. La luce proviene da esso. In un certo senso non c’è neanche presente: neppure infinito, ma indefinito (2)».

Quanto dura uno scoop? “La questione della durata di uno scoop risale all’inizio del giornalismo moderno. Sin dal 1918 la Corte suprema americana definì la cosiddetta “hot news doctrine” che condannava l’agenzia INS per aver utilizzato e riscritto le notizie della Associated Press dal fronte della Prima guerra mondiale. Punto interessante: la Corte non considerò applicabile la legislazione sulla proprietà intellettuale, ritenne piuttosto che la INS avesse svolto pratiche anticoncorrenziali”, ma affermò che il diritto dell’AP doveva essere molto limitato nel tempo, quello nel quale le “hot news” avevano un valore commerciale. Al di là delle questioni giuridico-commerciali, il punto fondamentale ed ovvio – ma in quella sentenza la Corte suprema lo stabilì formalmente – è che i “fatti” non possono essere soggetti a copyright (3)”.

L’estrema volatilità di una notizia si accompagna alla sua riproducibilità in tempi brevissimi: da qui la difficoltà di ricompensare un’appartenenza instabile.

La fallacia di una notizia. Mi sono occupato, sia nella mia ricerca storica che in qualche breve articolo (4), di trattare il tema della fallacia delle notizie nell’ambito della loro riproduzione mediatica. La nostra società assomiglia, al netto dei contatti frammentari della rete e al netto della nostra capacità di discernere, ad una “società delle trincee”, formula sintattica che prendo in prestito da un grandissimo storico francese, March Bloch, che la utilizzò a proposito delle diffusione delle false notizie durante la prima guerra mondiale.

March Bloch raccontava che i contatti nelle trincee si proponevano come legami rarefatti, tanto impersonali quanto imperfetti, spesso facilitati da intermediari, ovvero da individui che lo storico definì come “specializzati” (in comunicazione ça va sans dire). Questi individui, moderni emissari e trascrittori di poteri politici ben definiti avevano il compito non solo di trasferire alcune notizie a discapito di altre (censura), ma anche di ingigantire, trasformare, fuorviare ed inventarne delle altre, i cui scopi venivano pesantemente inseriti negli obiettivi bellici. I soldati pensarono, insomma, che fosse vero “tutto ciò che non provenisse né dai superiori, né dalla carta stampata (5)”.

Se pensiamo alla rete come ad un grande archivio del tempo istantaneo si comprenderà maggiormente la difficoltà di un “lettore semplice in trincea” di valutare coloro a cui aggrapparsi in maniera non estemporanea.

La diffusione e il suo prezzo. Le spezie, che per un millennio erano state segno di distinzione della tavola ricca, amate e desiderate forse al di sopra di ogni altra cosa, a poco a poco scomparvero dagli usi alimentari di molti. Scomparvero proprio nel momento in cui la loro abbondanza ne avrebbe consentito un largo impiego. La pioggia di profumi e di sapori che investi l’Europa nel Cinquecento provocò presto stanchezza. Ora che tutti potevano usare zenzero, cannella e ogni sorta di “spezie fini”, i ricchi cercarono altrove un segno di distinzione. Anche per questo la cucina magra e speziata della vecchia Europa a un certo punto cambiò volto. Addirittura si preferì ricorrere a prodotti indigeni e in qualche modo “contadini”: nel Seicento, le élites francesi abbandonano le spezie e le sostituiscono con l’erba cipollina, lo scalogno, i funghi, i capperi, le acciughe… sapori e profumi più delicati, più adatti, certo, alla cucina “grassa” che andava allora affermandosi (6).

La storia materiale dei beni di consumo ci rimanda ad un dato costante: la preziosità di un bene è inversamente proporzionale alla sua diffusione. Questo dato non rimanda, ovviamente, né alla qualità, né all’utilità dello stesso. Quanto, evidentemente, alla sua desiderabilità e riconoscibilità sociale, politica, economica, culturale.

Il contenuto può contare? Sicuramente il contenuto degli articoli, delle ricerche, ecc. supera l’informazione in essi custodita: essa diventa appendice e mezzo di una costruzione estetica finalizzata alla creazione di un piacere estatico momentaneo. Come un sorso di vino, uno sguardo all’infinito, un ballo liscio con la persona amata. Condizione sufficiente alla transustanziazione del pane e del vino in carne e sangue e del gratuito in retribuito?

(1) Bitly è una società che fa URL shortening, tecnica utilizzata nell’ambito del Web per abbreviare lunghi indirizzi web (URL) in link di pochi caratteri. La ricerca è del 2011.
(2) François Hartog, Regimi di storicità, Sellerio Editore, Palermo 2007, pp. 238, 239.
(3) Mario Tedeschini Lalli, qui.
(4) Vinoestoria, qui.
(5) Marc Bloch, Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra.
(6) Da Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, 1993, Laterza, Bari.

avatar

Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

Nessun Commento

Commenta

Sii gentile, che ci piaci così. La tua mail non verrà pubblicata, fidati. Nei campi segnati con l'asterisco, però, qualcosa ce la devi scrivere. Grazie.