25 aprile con Pavese, Lajolo e Fenoglio. La Langa, le colline, le vigne

di Pietro Stara

Vi propongo una breve traversata letteraria. Gli sguardi, i pensieri, le parole sono quelle delle voci narranti. Per Pavese il luogo mitico è il nome comune e universale: le rive, la terra, la vigna, la collina. È l’archetipo primordiale di cui ognuno possiede il riflesso: i ricordi, con cui si battezzano le cose, sono la memoria del simbolo e del mito. 
Lajolo, nella vigna del bricco di S. Michele, segue la fatica, che è un’arte, del vignaiolo, cercando le tracce del padre: “Sul tuo collo la pelle/ ha fatto quadrati/ di fatica./ Seguo ansioso il battito/ delle vene sulle tue mani/ secche/ come la corteccia dell’olmo che ancora poti/ padre”. Infine Fenoglio lascia alla Langa, alla grande madre, il compito di proteggere i combattenti per la libertà, in quelle colline che non solo li hanno condizionati, ma che li hanno compresi come non fosse possibile alcun esilio da esse.

Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paese e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello – ogni vigna la sua macchia (oggi manca del tutto il bosco sulle colline del moscato) – e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. “Le donne, – pensai, – hanno addosso qualcosa di simile”.
CESARE PAVESE
“La Luna e i Falò”, Torino 1950 

Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere, per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai da bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch’io fuggissi di soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.
Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltarsi e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto, allora camminavo tendendo l’orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi ed uguali.
CESARE PAVESE
“La casa in collina”, Torino 1949 

La vigna è ad altezza d’uomo, su ogni tralcio, su ogni zolla di terra su cui sorgono i filari sta segnata la secolare fatica contadina. Il vignaiolo comincia a potare la vite quando le sue scarpe si immergono ancora nel fango dell’inverno. È ancora freddo e già vedi i contadini imbacuccati, le mani arrossate arrancare tra i filari mentre scelgono uno ad uno i rami per decidere quali sono quelli che metteranno i grappoli e debbono perciò avere tutto il vigore delle radici, e gli altri che debbono invece essere recisi. La potatura non è solo un mestiere, è un’arte. (…) i tralci tagliati mettono lacrime. Se passi tra i filati è come assistere a un pianto silenzioso e sei portato a sentire la vite come una creatura. (…)
Persino il bricco su cui sorgeva Vinchio aveva dovuto cedere alla marea grigia che saliva notte e giorno a nascondere anche le punte delle piante più alte. Ci si muoveva senza occhi, avviluppati nell’umidità e nelle tenebre.(…) D’improvviso dal cielo sparì il bitume grigio-nero e sparì uno sprazzo azzurro. Il sole appariva come un puntino luminoso, una speranza, ma bucava sempre di più. Ero felice. L’azzurro faceva sempre più contrasto con la nebbia terrestre in cui ancora ero immerso. Ed ecco sul lontano orizzonte emergere dal mare opaco le montagne. Splendevano nel sole. Poi per magia, spuntò là di fronte il campanile di Castelnuovo Calcea, poi la chiesa, le case intorno.
DAVIDE LAJOLO
“I mé”, Vallecchi, Firenze 1977 

Loro avevano ammazzato, più borghesi che partigiani, avevano fatto falò di cascine, e razziato, avevano forzato le donne, intruppati uomini e preti perché gli portassero le cassette delle munizioni e gli facessero scudo da noi. Erano venuti in tre divisioni, per setacciare tutto e tutti. Ma, chiedo perdono ai morti e alle loro famiglie, scusa a quelli che ci han perduta la casa e il bestiame, ma io credo che allora tedeschi e fascisti non si siano salvate le spese. Non fu abilità nostra, né che loro fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa.
I vapori del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse loro un vestito da sotto in su. La strada davanti era deserta ed immota, salvo per i voli e gli atterraggi dei passeri e l’aria, la vicina e la lontanissima era un pozzo di dorata trasparenza. Il paesaggio era così nitido che potevi cogliere il minimo movimento, e lo scopo del contadino al margine dell’aja più alta e distante, e la torre sull’ultima collina potevi sognare di toccarle il ventre col dito appena intriso.
Era per Johnny un incanto sempreverde quello di un uomo andante e solitario per le deserte colline, nei punti sommi la testa e le spalle erette nello sweeping del cielo. E osservando il passo di Ettore, si rese definitivamente conto che le colline li avessero tutti, lui compreso, influenzati e condizionati tutti, alla lunga, come se vi fossero nati e cresciuti e destinati a morirvi senza conoscere evasione od esilio.
BEPPE FENOGLIO
“Il partigiano Johnny”, Torino 1968 

[Immagine: Vigne a Farigliano, da Eraldo Revelli]

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Pietro Stara

Torinese composito (sardo,marchigiano, langarolo), si trasferisce a Genova per inseguire l’amore. Di formazione storico, sociologo per necessità, etnografo per scelta, blogger per compulsione, bevitore per coscienza. Non ha mai conosciuto Gino Veronelli. Ha scritto, in apnea compositiva, un libro di storia della viticoltura, dell’enologia e del vino in Italia: “Il discorso del vino”.

6 Commenti

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Armando Castagno

circa 9 anni fa - Link

Grazie.

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Mahee Ferlini

circa 9 anni fa - Link

Meraviglioso, grazie

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Fabio Pracchia

circa 9 anni fa - Link

Splendido, grazie.

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Giovanni Corazzol

circa 9 anni fa - Link

Grazie

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francesca ciancio

circa 9 anni fa - Link

bel risveglio

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carolaincats

circa 9 anni fa - Link

stara for president!grazie, smack!

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