Poesia e gioia, quasi magia. Grands Échézeaux 2001, Domaine de la Romanée-Conti

di Emanuele Giannone

PREMESSA. Sto partecipando al 2° Corso sulla Borgogna organizzato da AIS Roma e diretto da Armando Castagno. Il vino che segue è stato degustato in occasione della prima di due lezioni dedicate ai Comuni di Flagey-Echèzeaux e Vosne-Romanée. All’Associazione e al direttore va ascritto il merito per un ciclo didattico sui generis, irripetibile, splendido.

LEMMA. Domaine de la Romanée-Conti: nome del desiderio per sedicenti esteti e poeti del vino, inconsapevoli del torto che gli faranno incontrandolo, degustandolo, decurtandolo. L’emozione sottesa a un batticuore può esser misurata con un amperometro. Parimenti si può congegnare un divertimento musicale che accozzi Gustav Mahler, Giorgio Gaber, Gary Moore e Gong. Secondo lo stesso approccio si può decurtare degustando. Per questi cimenti non sono richiesti talento o fantasia. Tutt’al più nel secondo caso possono tornare utili un campionatore e qualche rudimento di composizione musicale. Nel terzo servono loquela sbrigliata, fede nelle enumerazioni seriali di riconoscimenti e soprattutto un’attitudine da archivista o contabile dei sentimenti: l’ha chi squinterna un vino in litanie di citazioni, confondendo pregnante e pleonastico; l’hanno molti adoratori e tarantolati della grande bottiglia, anzi grandissima, anzi di più: The Ultimate, quella totemica, definitiva. La famigerata bottiglia definitiva è la migliore da dissezionare in fastelli e farragini di descrittori, nella convinzione che fardelli e lungaggini amplificheranno la forza evocativa. È la più ricercata per foto-ricordo e foto-profilo: i servizi di rete sociale abbondano di sorrisi eginetici accanto a etichette-trofeo.

Più sincero è il tentativo di trasfigurare il vino in una sorta di metafora poetica, sebbene esso si riveli quasi sempre maldestro: i poeti sono pochi e sacri, oltretutto è fondato il dubbio che alla voce della poesia rispondano più facilmente saxa et solitudines – le pietre e i deserti¹ – che i lirici enoici.

Altro è rivivere nella ricordanza l’intensità di un batticuore. Oppure strabiliare per un brano musicale in cui riecheggino – come in un piccolo prodigio combinatorio, senza ombra di plagio – motivi e influssi disparati. Ancora, altro è trasecolare per un vino impensato, falotico o folle, per la sua misura o la sua estrema libertà espressiva, per il diletto indefinito della sua condotta, dei suoi effetti. Un vino così ha il suo particolare odore – il proverbiale complesso non analizzabile di Peynaud – nel quale solo alcuni elementi sono riconoscibili e tutti gli elementi contribuiscono alla sensazione globale. Grande e mimetico, la sua grandezza non riducendosi a quel che esso offre, ma dipendendo ugualmente da ciò che esso nasconde. Un vino così richiede discrezione, non descrizioni.

Il Grands Échézeaux 2001 del Domaine de la Romanée-Conti è un vino così, grande e mimetico. Quindi è sommamente esposto al rischio della decurtazione, all’idea di difficoltà e sacralità della fruizione, una cosa per pochi esperti, una bottiglia totemica. Nulla di più scorretto. Qui siamo agli antipodi, questa è bontà vera. Altro che definitiva: definitoria, piuttosto. Definisce infatti un ambito del gusto, insegna una possibilità ulteriore agli abitudinari che determinano e circoscrivono in mode e formulari. È fascino e gioia. Anzi, di più, è ode alla gioia in senso filologico, perché il suo fascino riunisce ciò che la moda separa². Il suo esordio è quasi modesto, un semplice mormorio. In realtà il rumore di fondo è definizione in corso degli elementi essenziali, sui quali si incardineranno i movimenti successivi. La progressione è contrappuntistica: una fitta rete di temi, associazioni e richiami. Ogni dettaglio, si vedrà dopo, è organico: serve a rendere più precisa l’espressione emotiva. Ed è in trasformazione continua: così concorre ad articolare la forma del vino in modo sempre nuovo ma all’interno di un prospetto unitario. Più che di dinamica si dovrebbe parlare di metamorfosi. La tensione è incessante: sembra più volte raggiungere un apice ma dopo ogni apparente rilascio si riprende, trovando nuova intensità – di espressione o di evocazione, potenza o finezza – e nuovi sbocchi.

Un vino così non è definitivo. Al contrario, è iniziatico perché diletta ma non basta. Anche in questo sta la sua somma bontà: l’anima che non sia tanto di ghiaccio (o di coccio) da restarne imperturbata sarà accattivata dalla sua profondità, dai segnali che ne provengono come da una specie di infinità; e sebbene quest’impressione la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, essa stenterà ad abbracciarne la misura e non si accontenterà: nel partire non la lascia mai contenta, perché l’anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera³. Purtroppo a un certo momento il calice si scopre vuoto. Ad animare la perfezione immobile dell’ultimo sorso resta un lungo  battito, lento. E in quel vuoto fragola e granatina, canfora, incenso, creta, henné. E specialmente mare (e laguna e molluschi); e viaggi per mare (e ponti di corridoio e doppi fondi). Dalle note finali procediamo a lettura inversa con quelle precedenti: riduttive, poco utili a rendere la sensazione globale, ma con un vino così persino il passaggio attraverso la scatola degli aromi è ispirante.

Profondo e riservato per approccio. I primi segnali sono di classe (non di specie): agrume, felce, terriccio, mare, sottofondo speziato. Si prosegue in un crescendo di articolazione con acqua salmastra, riccio di mare, cappero al sale, amarena, umami, curcuma, cumino, acqua di pomodoro. L’evoluzione è favolosa: metallo caldo, incenso, fico, patchouli, chiodo di garofano, fieno greco, olio di rosa, note iodate e via con l’immaginazione (e con un buon quarto del campionario di colonie Borsari). Nei passaggi successivi si acuiscono le note fruttate, ciliegia, fragolina e ribes nero di contorno. Bocca impressionante per le alternanze e le ricomposizioni armoniche di eleganza e potenza, sontuosità e misura, contegno ed effusione. Il liquido circonfonde la bocca e la apprende in sensazioni di energia e pressione, riscalda giustamente. Il tannino carezza e punge. Al gusto è lui: identità, intima coesione di fondamentali ed accessori, articolazione e unità espressiva. Ricco dei corrispondenti diretti di quanto rivelato all’olfatto, declinati in fase espansiva e dinamica. Ricco della stessa dimensione: è ampio e profondo di sapori, non pieno. Retrogusto di ciliegia, mare, creta, incenso, spezie dolci, acqua di fiori e frutto carnoso.

POSTILLA. In un passato abbastanza recente ho avuto la fortuna di incrociare l’Échézeaux 2001. Traggo dagli appunti di degustazione qualche spunto interessante: beva ugualmente superba e disinibita, fascino ed espressione più immediati, in generale più espansivo e meno “denso” di aromi, quasi essi fossero – con rispetto parlando – più diluiti, aperti, captabili. Trama – con rispetto crescente – più larga e festosa. Trascrivo direttamente dalle note del primo: “con brio / con forza-enfasi allegra”. In breve – con il massimo rispetto – più facile o esplicito.

RAGIONERIA. 12.500 bottiglie, 3 ettari e mezzo di impianto del 1958 gestito in biodinamica. Nessuna diraspatura, 16 giorni di macerazione, botti nuove. A questo vino furono munificamente accordati 89-90 Parker Points®. Pescando nel mucchio, fanno quattro punti e mezzo meno di Turriga 2006. Il paragone è mio ed è inutile, più o meno come i punteggi.

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¹ Saxa et solitudines voci respondent (Cicerone, Pro Archia poeta).
² Deine Zauber binden wieder was die Mode streng geteilt: è un verso dell’ode schilleriana Alla Gioia (Ode an die Freude).
³ Nel corsivo parla un marchigiano eccezionale. Eccezionalmente non si tratta del nostro Editor-in-Chief.

Emanuele Giannone

(alias Eleutherius Grootjans). Romano con due quarti di marchigianità, uno siculo e uno toscano. Non laureato in Bacco, baccalaureato aziendalista. Bevo per dimenticare le matrici di portafoglio, i business plan, i cantieri navali, Susanna Tamaro, il gol di Turone, la ruota di Ann Noble e la legge morale dentro di me.

18 Commenti

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Snowe Villette

circa 11 anni fa - Link

Bella spiegazione, co'n sacco de parole ricche de significato, precise eh, se capisce tutto! Meno 'na cosa: ad averce i soldi o a farselo offrì da uno che ce li ha, 'sto vino se po' beve normalmente seduti o ce se deve mette' ginocchioni? (se non risponni tu me va bene pure Paparello)

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Emanuele

circa 11 anni fa - Link

la risposta è: 1) colletta; 2) spesa proletaria.

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Marco

circa 11 anni fa - Link

Beh mi pare che tutto il contesto possa definirsi in ogni modo meno che da "colletta" o "proletario"..... e questo fin dalla premessa dell'autore, dato che il 2° corso sulla Borgogna dell'AIS Roma costa 2.200 €.......

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Emanuele Giannone

circa 11 anni fa - Link

Giusta osservazione. Cifra importantissima, quindi grandi aspettative e grande rischio di vederle tradite. Quali aspettative? Competenza e preparazione inusitate, trattamento approfondito di tutti gli aspetti rilevanti, rapporto positivamente sbilanciato tra nozioni possedute e nuove, originalità - non intesa come stravaganza, piuttosto come non-ripetitività e non-omologazione - dell'approccio didattico, ampia rappresentatività e qualità superiore della selezione dei vini. A metà del corso posso già attestare che le attese sono state esaudite e di gran lunga sorpassate dalla consistenza dei contenuti e dal piacere della degustazione. 7€/die di sacrificio su base annua ricompensati ben oltre la misura da me ipotizzata quale accettabile. In altre parole: se sei appassionato di semiotica e vuoi capirne di più, puoi scegliere tra acquistare saggi di Umberto E. o frequentare le sue lezioni. Idealmente puoi fare entrambe le cose.

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Snowe Villette

circa 11 anni fa - Link

Grazie, sei nobile nella prosa ed umile nella risposta. PS Viva la Maggica!

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Emanuele Giannone

circa 11 anni fa - Link

nobbile, please. Con due b.

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francesco vettori

circa 11 anni fa - Link

Grande Emanuele, appena posso aggiungo qualche riflessione al tuo articolo che va letto e meditato come merita.

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Cristiana Lauro

circa 11 anni fa - Link

Questo post mi piace assai.

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francesco vettori

circa 11 anni fa - Link

Come Lei giustamente scrive che il mercato dei vini è molto competitivo, così lo è quello dei testi scritti. Il degustatore e lettore, ideale e non, sceglie quelli che corrispondono al gusto suo.

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Nelle Nuvole

circa 11 anni fa - Link

"Un vino così ha il suo particolare odore – il proverbiale complesso non analizzabile di Peynaud – nel quale solo alcuni elementi sono riconoscibili e tutti gli elementi contribuiscono alla sensazione globale. Grande e mimetico, la sua grandezza non riducendosi a quel che esso offre, ma dipendendo ugualmente da ciò che esso nasconde. Un vino così richiede discrezione, non descrizioni." Complimenti all'allievo ed al suo insegnante, e anche all'AIS che offre la possibilità di far crescere chi vuole imparare. Questo è un post che richiede un certo impegno nella lettura e che racconta dell'esperienza di un vino destinato a pochi. L'aspetto più bello è che questo vino è stato messo a disposizione di persone normali, non di ricconi sboroni. Il corso completo non costa poco per chi vive del proprio stipendio, ma penso che sia un sacrificio possibile e ricompensato ampiamente.dalla scelta degustativa. Ed io che non vi posso partecipare sono comunque contenta di questa testimonianza.

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Emanuele Giannone

circa 11 anni fa - Link

Grazie a NN per avere ancora una volta felicemente fotografato ciò che non siamo (ricconi), ciò che non vogliamo (sboroni).

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francesco vettori

circa 11 anni fa - Link

Scusate la lunghezza del post. L'articolo la merita. Grande Emanuele, oltre a Grands Échézeaux. Più leggo e più mi vengono in mente analogie e differenze con parole appartenenti ad altri contesti. Per esempio la letteratura e la poesia e, anche, l’arte tout court. Scrivi “contabile dei sentimenti” e, chiedo io, ancor prima delle sensazioni, che fuggon via senza trasformarsi appunto in sentimenti? In poesia, quella almeno del Novecento, e in Italia non meno che in Francia, il sentimentalismo è superato, rigettato, archiviato come passato proprio dagli “ultimi”, “i definitivi”, anzi i Novissimi. E tra l’altro in nome non della forza evocativa, e lirica, della poesia, e del vino, ma di una intenzione e volontà programmatica, volta al futuro e al fare e alla trasformazione del corpo … “sociale”, rivelatasi poi illusoria. “I poeti sono pochi e sacri”: a dir la verità, oggi sembrerebbero molti, pur non leggendoli nessuno e giusto per non confondere, sante tue parole, “pregnante e pleonastico”, è certo per me che oggi il poeta la sua aureola, la sua sacralità l’ha deposta, chi volontariamente, chi meno. E mi corre sempre un brivido lungo la schiena al sospetto che quella sacralità, cioè eterodirezione, cioè perdita di senno, sia stata assunta da altri e altro, magari il vino. Sono il primo ad ammettere che il suo fascino sta nell’indeterminato, nel misterioso, nel naturale che diviene cultura. Però poi mi fermo perché quel benedetto complesso non analizzabile che richiami è còlto innanzitutto dai sensi e per sua essenza passa tanto che qualche buon filosofo lo definirebbe un evento piuttosto che una sostanza, considerata la sua mutabilità. Ora che dal senso, unico, si transiti ai sensi multipli, dalla conoscenza intellettuale a quella sensibile, secondo me è un gran guadagno perché la prima è stata privilegiata a discapito della seconda. Fermo restando che giudico l’atto di degustare vino tra i più MEDIATI che ci siano, mediati non solo dall’esercizio dei sensi e della memoria ma anche, platonicamente, dall’idea che abbiamo del vino e giusto per aggiornarci un po’, novissimamente, dalla ideologia che lo accompagna. Cioè che “funzione”collettiva ha il vino? Barthes ha già risposto qualche decennio fa. E per me oggi che significato ha? E il secondo brivido mi corre lungo la schiena pensando al simposio antico quando discutevano, all’interno di gruppi omogenei e con regole di comportamento molto istituzionalizzate, insomma degne dell’AIS, non di vino ma appunto di poesia, arte, politica, società. Senza idealizzarli troppo gli antichi. Sono meglio le nostre degustazioni dove l’oggetto del discorrere è il vino? Un rivolgimento. “Qui siamo agli antipodi, questa è bontà vera. Altro che definitiva: definitoria, piuttosto. Definisce infatti un ambito del gusto, insegna una possibilità ulteriore agli abitudinari che determinano e circoscrivono in mode e formulari. “ Quella della possibilità ulteriore, che diventa consapevolezza e poi bisogno e ricerca di un futuro diverso anche se nel PRESENTE NON se ne dà traccia, è la tensione e la forza, e la novità, dell’arte. E davvero interessante e impegnativa, e fosse stata condivisa dopo un’esperienza comune, l’asserzione che si tratta di bontà vera. Mi è capitato, qualche mese fa, di assaggiare in Rue Mantegazza un piatto libanese (Petis), in sostanza per chi non sa riconoscere altro come me, pasta simile a ravioli, farcita con carne di manzo (?), comunque scura e stracotta. E pur libanesi, il loro gusto tanto assomigliava ai nostri, emiliani, cappelletti o meglio anolini. Questo per dire che li ho trovati buonissimi e subito ho pensato come ad un archetipo collettivo del buono alimentare. Cioè un buono che vale sempre e ovunque e per tutti. Ma sarà vero? E tra l’altro, creduto qualche tempo prima, ancora là, dopo l’assaggio di un ultimo Riesling, ben altro. Cioè che il termine “vino”, per la sperimentata differenza del suo referente, per le sensazioni così disparate che ti mette sotto il naso e in bocca, valesse come qualcosa di davvero poco pregnante. E che certo poco servisse ad intenderne la bontà. Dunque la morale qual è? Una cosa alla volta, intanto vorrei sentire anche Voi. Anche te, Emanuele che ne pensi.

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Emanuele Giannone

circa 11 anni fa - Link

Io credo che il tuo intervento, Francesco, meriti subito un attestato di ricevimento, permettimi di chiamarlo così, a significare l'attenzione e la considerazione che gli ho immediatamente dato. Non perché io mi arroghi il rango e la posizione di chi viene interpellato nell'ipotesi o credenza che abbia titoli e competenze per recepire, considerare, rispondere; ché anzi la prima impressione è quella di una densità e profondità che non sono certo di poter ripagare con pensieri di pari levatura. Se non, appunto, recependo e considerando attentamente i singoli passaggi e i molteplici nessi. Il tuo commento è interpunto di segnali che, già da soli, significano ricchezza. Ma non è sufficiente a me, né, credo, lo sarebbe a te, un pensiero che riposi su questi soli. Per fortuna il tempo è dalla nostra e io me ne riservo un poco per risponderti degnamente.

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sfursat

circa 11 anni fa - Link

Complimenti davvero per il bell'articolo. Mi hai fatto ricordare la bottiglia di Motrachet DRC che vedevo sullo scaffale del supermercato di rue de passy.... che non sono riuscito mai ad acquistare :-)

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